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Con Trump la classe operaia non va in paradiso

Alessandro Maran venerdì 11 Novembre 2016
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Donald Trump è il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. È stato eletto al termine di una campagna elettorale sconvolgente, populista e polarizzante che, secondo il NY Times, ha preso di mira senza tregua «istitutions and long-held ideals of American democracy».

L’esito sorprendente ha smentito tutti i sondaggi che, fino all’ultimo, davano ancora ad Hillary Clinton un piccolo ma persistente margine di vantaggio.

Il trionfo di Trump, un imprenditore edile di 70 anni diventato una star televisiva, senza nessuna esperienza di governo, suona come un deciso rifiuto delle forze dell’establishment che si sono radunate contro di lui, dal mondo degli affari alla pubblica amministrazione, e del «consenso», e cioè della conformità, dell’unione di intenti, che finora hanno costruito su qualsiasi cosa, dal commercio all’immigrazione.

Il risultato indica la sconfessione non solo di Hillary Clinton ma anche del presidente Obama, la cui eredità è improvvisamente in discussione: otto anni di sforzi coronati da più di un risultato finiranno nelle mani di un uomo determinato a cancellarli; lo stesso uomo che lo ha descritto, diffamandolo, come un musulmano nato in Africa che ha conquistato la presidenza con l’inganno.

Ed è stata una dimostrazione perentoria di forza da parte di una coalizione ampiamente trascurata, composta principalmente da elettori bianchi blue-collar che hanno avvertito che la promessa degli Stati Uniti è sfuggita loro di mano dopo decenni di globalizzazione e di multiculturalismo e che ha trovato in Trump (un abitante di Manhattan, sposato tre volte che vive in un attico di tre piani foderato di marmi sulla Fifth Avenue), un improbabile campione. Non per caso, subito dopo il voto, Trump si è rivolto ai suoi sostenitori dicendo: «Le donne e gli uomini dimenticati del nostro paese non saranno più dimenticati». E nel suo discorso ha scelto di fare quel che si è guardato bene di fare nel corso di una rovente campagna nella quale ha alimentato continuamente divisioni: un appello per l’unità. «Ora è tempo per l’America – ha detto – di fasciare le ferite delle divisioni».

Fin dall’inizio della campagna elettorale (nella quale ha esordito con una serie di affermazioni scioccanti con le quali sosteneva che gli immigrati messicani erano stupratori e criminali), Trump è stato largamente sottovalutato come candidato, prima dai suoi avversari nella nomination repubblicana e poi dalla sua rivale democratica. La sua ascesa è stata ampiamente mancata dai sondaggisti e dagli analisti. E una certa aria di improbabilità ha accompagnato la sua campagna, a danno di quanti hanno sottovalutato il suo messaggio pieno di rabbia, il suo stile e la sua capacità di improvvisare, e il suo appello agli elettori disillusi. Ha proposto rimedi che hanno sollevato dubbi di costituzionalità, come il divieto di ingresso negli Stati Uniti per i musulmani. Ha minacciato gli avversari, promettendo denunce contro le agenzie di stampa che hanno osato criticarlo e contro le donne che lo hanno accusato di molestie sessuali.

A volte, ha semplicemente mentito. Ma i suoi comizi senza filtri e il suo egocentrismo hanno attratto un seguito entusiasta, fondendo politica identitaria e un populismo economico che spesso ha sfidato la stessa linea di partito. I suoi comizi sono diventati il fulcro di un movimento politico che si è riconosciuto nella quotidiana promessa di una vittoria dilagante nelle elezioni (e oltre) e nella denuncia insistita di una politica «truccata» contro Trump e i suoi sostenitori. È sembrato incarnare il successo e la grandezza che molti dei suoi seguaci sentivano mancare nelle loro vite e nel loro stesso paese (tutte cose che a dire il vero che nel nostro piccolo, in Italia, abbiamo già sperimentato). Ha snobbato le modalità di una politica moderna trainata dai sondaggi, bollandola come uno spreco di denaro e di tempo ed ha puntato sulla «pancia» del Paese. Per Hillary Clinton la sconfitta segna la fine inattesa di una dinastia politica che ha caratterizzato la politica democratica per una generazione. Più e più volte, sono emerse le sue debolezze come candidato. Non è riuscita ad entusiasmare gli elettori affamati di cambiamento. Ce l’ha messa tutta per costruire fiducia con  americani sconcertati per la sua decisione di usare, da segretario di Stato, un email server privato; e si è sforzata di trovare argomentazioni convincenti che la presentassero come un campione degli oppressi nonostante i discorsi a pagamento che le hanno fruttato milioni di dollari. Ma non è bastato.

Il risultato è anche una severa (e storica) lavata di capo per il Partito democratico da parte dei blue-collar bianchi che hanno formato la base del partito dalla presidenza di Roosevelt a quella di Bill Clinton. E per la sorpresa di molti a sinistra, gli elettori bianchi che hanno contribuito ad eleggere il primo presidente nero, sembrano più riluttanti ad allinearsi dietro ad una donna bianca.

A spingere Trump in una vittoria inaspettata sulla Clinton sono stati i luoghi che si sentono più lasciati indietro in una America che cambia.

Trump ha conquistato margini enormi tra gli elettori rurali ed extraurbani e schiaccianti vantaggi tra i blue-collar bianchi e in diversi casi, ha impedito che Hillary Clinton ottenesse un vantaggio tra i bianchi in possesso di istruzione universitaria nella misura che sembrava possibile. La chiave del successo di Trump sta nello sfondamento tra gli elettori della classe operaia bianca. Come del resto i sondaggi annunciavano da mesi, la coalizione di Trump è centrata sugli elettori bianchi senza istruzione universitaria. E tra questi elettori, Trump ha schiacciato Clinton con margini enormi, quasi dovunque e specialmente nel Sud. Ha battuto Clinton tra i bianchi senza istruzione universitaria con 18 punti percentuali nel New Hampshire, 21 in Colorado, 22 in Arizona, 24 in Wisconsin, 31 punti in Michigan e 35 nel Missouri. Il margine diventa colossale negli stati meridionali: 34 punti in Florida, 40 punti in North Carolina, ben 64 punti in Georgia. Perfino negli Stati dove Hillary Clinton è andata bene, come il New Jersey, il Wisconsin, la Pennsylvania e Washington, i margini di vantaggio di Donald Trump tra i lavoratori bianchi sono enormi. In molti casi, questi dati rappresentano un declino significativo per la Clinton anche a rispetto ai dati di Obama nel 2012. E alla fine, la sua affermazione fra gli elettori delle minoranze è risultata troppo esigua per resistere al «surge» dei blue-collar bianchi. In un’elezione che è diventata praticamente una guerra civile tra due Americhe, lo schieramento di Trump si è dimostrato più entusiasta e più unito di quello di Hillary Clinton. E ha spinto ora l’America in un esperimento inaspettato e, forse, senza precedenti.

Come ha detto Hillary Clinton, «We owe him an open mind and the chance to lead». «La sconfitta fa male – ha proseguito – ma per favore non smettete mai di credere che vale la pena combatte per quel che è giusto, ha detto ai giovani che l’hanno sostenuta. Abbiamo bisogno di voi per proseguire queste battaglie adesso e per il resto della vostra vita».

 

 

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