di Vittorio Ferla
Nel giorno in cui l’ottavo scrutinio sancisce il secondo mandato di Sergio Mattarella arriva già un altro scrutinio: quello che valuta il rendimento dei capi dei partiti che hanno animato le trattative. Nessuno di loro, all fine della storia, è riuscito a trovare una soluzione, certificando la debolezza diffusa delle leadership. Tutti hanno dovuto raccogliere il segnale di saggezza mostrato dalla base parlamentare che, nelle condizioni date, assai complicate, ha chiesto di lasciare tutto com’era. Ma non tutti i leader sono deboli allo stesso modo. La pagella dei peggiori tocca certamente a Matteo Salvini e a Giuseppe Conte, i due che si sono mossi più di tutti gli altri, ma senza portare alcun risultato. Tranne che logorare in modo palese la propria credibilità e le relazioni con gli alleati.
Il numero uno della Lega, in particolare, esce dalla vicenda con la stessa lucidità di un pugile suonato. In tutti i modi ha cercato di proporsi come il king maker di questa tornata presidenziale. Ma ogni volta che ha cercato di assestare dei colpi, il suo sforzo è andato a vuoto. E, ad ogni bersaglio mancato, ha ricevuto in cambio un cazzotto, fino a quando, ieri, perfino Berlusconi si è spazientito dal suo letto di dolore e ha annunciato che avrebbe condotto i negoziati in prima persona. Il gong finale ha trovato Salvini al tappeto, completamente rintronato: un sconfitta clamorosa e imbarazzante. L’unico esito della sua palese confusione è stato, infine, il rafforzamento di tutti gli altri leader, sia gli alleati che gli avversari. Certo, alla fine di un lungo peregrinare tra chilometriche liste di candidati, Salvini alla fine sceglie l’unica opzione sensata. Ma prima di arrivare al dunque l’ex capitano è stato capace di bruciare tutti i nomi di tutte le rose. Il caso più grave è, ovviamente, lo smacco subito dalla presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati: la quale, a onor del vero, ha contribuito non poco alla propria figuraccia. In più, Salvini ha creato malumori nel suo stesso partito: il peso di Giancarlo Giorgetti oggi è aumentato, mentre crescono i malumori dei presidenti di regione leghisti che hanno visto come una liberazione la designazione di Mattarella. Salvini ha gestito malissimo la sua coalizione, lasciandola oggi più divisa che mai. Giorgia Meloni, che al confronto emerge come una guida più coerente e ordinata, alza già la voce chiedendo una rifondazione del centrodestra e la riforma dell’elezione del presidente della Repubblica sulla base del voto popolare. Infine, il leader della Lega è riuscito nel doppio capolavoro di far fare un figurone a Enrico Letta – il segretario del Pd che, con pazienza cinese, ha atteso il passaggio del suo cadavere sulla riva del fiume – e di ricompattare il campo largo del centrosinistra che non stava proprio in salute.
E, a proposito di fronte progressista, non si può dimenticare l’altra insufficienza in pagella: quella di Giuseppe Conte. I suoi movimenti sono stati più sornioni e velati, ma non meno sconclusionati del suo omologo leghista. Solo l’attività di tutoraggio di Enrico Letta – e, per interposta persona, di Matteo Renzi – gli ha impedito di fare pasticci. Il capo del M5s, tra l’altro, ha cercato più volte l’accordo con Salvini. Prima sul nome di Franco Frattini, ex ministro nei governi Berlusconi e oggi presidente del consiglio di stato. Poi sul nome della Casellati (ma è stato obbligato all’astensione da un accordo di coalizione). Infine, su una candidata donna, con l’improvvido lancio di Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti, nella notte di venerdì, quando il Mattarella bis era ormai sul tavolo come l’opzione finale. Non osiamo immaginare le ulcere sofferte dall’alleato Letta nei diversi passaggi. Ma non basta. Nelle trovate estemporanee dell’avvocato pugliese bisogna leggere i tentativi di smarcarsi dall’ombra di Luigi di Maio, leader dell’ala governista del movimento (che non ha mancato di stigmatizzare le bambinate del duo Conte-Salvini). Una ostilità che lascerà strascichi anche nei prossimi mesi, come ha confermato esplicitamente Conte nella conferenza stampa di ieri. Ma il dato che appare più sconvolgente è la apparente sordità di Conte ai messaggi che ogni giorno sono arrivati dalla base dei Cinquestelle: tutti orientati alla rielezione di Sergio Mattarella. Davvero stupisce che, invece di fiutare il vento e di cavalcare l’onda, il capo del M5s se ne sia fatto travolgere.
Che cosa succede adesso? La vicenda del Quirinale – con il logoramento evidente della leadership di Matteo Salvini e Giuseppe Conte – è destinata a cambiare gli equilibri tra i timonieri e la geografia dei partiti. In attesa di scoprire questi assestamenti, possiamo già fare un primo bilancio. Salvini e Conte sono i gemelli diversi del populismo italiano che ha conosciuto uno straordinario exploit nelle elezioni del 2018. La legislatura in corso è stata segnata da questo evento. Non a caso, il primo governo Conte si è basato sulla inedita alleanza gialloverde. Quel governo ha rischiato di far deviare l’Italia dalla retta via europeista e atlantista. In proposito, bisognerebbe ricordare il provvidenziale veto di Sergio Mattarella sul nome di Paolo Savona al ministero dell’economia, in ragione delle sue idee di uscita dall’euro. Sempre il governo gialloverde ha approvato Quota 100, una riforma delle pensioni demagogica che ancora oggi pesa sul debito nazionale e sul futuro delle giovani generazioni. Oggi quella fase storica sembra archiviata definitivamente. La resa dei conti all’interno della Lega non tarderà ad arrivare. La guida radicale di Salvini è in picchiata, mentre cresce una domanda di stabilità ed equilibrio dall’elettorato imprenditoriale del nord e dall’ala istituzionale dei governatori del Carroccio. Il M5s è ormai imploso e balcanizzato, mente continuerà la guerra tra Di Maio e Conte. Il movimento è destinato a polverizzarsi: su ciò che ne resta il Partito democratico cercherà di esercitare la sua influenza. Ma già emergono le prime frizioni.
In generale, le pulsioni antisistema incarnate all’inizio della legislatura da Lega e Cinquestelle si sono esaurite nella rielezione di un presidente dalla lunga storia che affonda le sue radici nella cultura politica della cosiddetta ‘prima repubblica’. E che quel sistema ha sempre tutelato e difeso con sobrietà e prudenza. Per queste ragioni, la presidenza Mattarella risorge come fenice sulle ceneri del ‘bipopulismo’ italiano.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).