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Conte rispolvera il radicalismo delle origini, ma il M5s è alla fine della parabola

Vittorio Ferla domenica 31 Luglio 2022
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di Vittorio Ferla

 

Sono passati ben 13 anni da quando Beppe Grillo cercò di candidarsi alla segreteria del Partito democratico lanciando la sua partecipazione alle primarie. “Il 25 ottobre ci saranno le primarie del Pdmenoelle. Io mi candido”, scrisse Grillo sul suo blog il 12 luglio del 2009. Con l’idea di “rifondare” quello che a suo giudizio era diventato “un mostro politico nato dalla sinistra e finito in Vaticano”. Il tentativo di “conquista” da parte del comico – che nel 2007 aveva organizzato a Bologna il primo Vaffa-Day – fu respinto con prontezza dalla dirigenza dem. Ma proprio questo assalto mancato alla casamatta del progressismo – che, secondo Grillo, aveva tradito la sua ispirazione originaria – divenne la molla definitiva per la fondazione del M5s che vide la luce il 4 ottobre del 2009.

Di acqua sotto i ponti, nel frattempo, ne è passata parecchia, ma la storia sembra ripetersi. Oggi tocca a Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, ricacciare Giuseppe Conte nell’angolo, dopo lo scriteriato corpo a corpo con Mario Draghi che ha portato allo scioglimento delle camere, rimarcando l’assoluta inaffidabilità dei grillini. Con una mossa audace, il segretario dem ha scelto di rompere l’alleanza con i grillini, nata nel nome dell’unità delle sinistre tanto cara alla ‘ditta’ del Pd e lanciata con tanto di prospettiva strategica durante la breve segreteria di Nicola Zingaretti e gli effimeri fasti del governo giallorosso su suggerimento di Goffredo Bettini, l’eminenza grigia del “partito romano”.

Questa parabola spiega molto sulle origini e sul futuro del M5s. Il movimento nasce nella prima decade del millennio come il più feroce antagonista del berlusconismo. L’uomo di Arcore, in quella fase, rappresenta tutto il peggio della “casta”. Il giudizio negativo espresso da Grillo e dal movimento delle origini sul polo delle libertà è radicale e resterà sempre tale. L’ispirazione originaria dei militanti pentastellati nasce da un humus ideologico di sinistra. A partire dal suo battesimo. Le cinque stelle richiamate nel nome fin dall’esordio rappresentano tematiche relative ad acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo e connettività. Successivamente vengono modificate in acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo. Nell’ultima elaborazione programmatica diventano, infine, beni comuni, ecologia integrale, giustizia sociale, innovazione tecnologica ed economia eco-sociale di mercato. Insomma, quale che sia la cinquina di sfide preferita, l’impronta gauchiste – caratteristica della formazione e della storia personale del leader e fondatore – appare evidente fin dalla fondazione. A ciò si aggiunga quella diffidenza verso gli Usa e l’Unione Europea tipica dell’anticapitalismo massimalista.

La critica feroce contro la casta non tocca solo il centrodestra ma viene rivolta contestualmente anche al Pd, reo di aver tradito i suoi valori originari per scendere a patti con la gestione del potere. Spesso il M5s si autocomprende e si propone come la forza che dovrebbe ‘redimere’ le contraddizioni del Partito Democratico. Nel 2013 tra i candidati del Movimento alla presidenza della Repubblica appare una lista di nomi di magistrati, politici, attivisti, artisti, professori, giornalisti – selezionati sulla base voto online di circa 50 mila iscritti – che la dice lunga sull’orientamento della base pentastellata: Emma Bonino, Gian Carlo Caselli, Dario Fo, Milena Gabanelli, Ferdinando Imposimato, Romano Prodi, Stefano Rodotà, Gino Strada, Gustavo Zagrebelsky. In quella occasione, la rielezione di Giorgio Napolitano per un secondo mandato rappresentò plasticamente, dal punto di vista dei grillini, una conferma della sclerotizzazione della casta. In virtù di una furia antipolitica orientata in tutte le direzioni, il M5s cresce progressivamente raccogliendo la rabbia montante di un elettorato misto, unito principalmente dalla logica del Vaffa. Nelle elezioni del 2018, diventa il primo partito italiano con il 33% dei consensi. L’exploit lo trasforma nel classico catch-all party descritto dagli scienziati della politica: un partito pigliatutto che trascende la sua stessa ispirazione originaria per parlare a tutto l’elettorato. Il che si traduce in una drastica riduzione – almeno apparente – del suo bagaglio ideologico, nella mancanza di riferimento a una specifica classe sociale, nella aumentata opportunità di accesso al “palazzo” da parte di un personale politico senza storia e senza riferimenti a gruppi di interesse determinati. Tuttavia, sul piano programmatico, l’impronta originaria è chiara: il tema chiave della campagna elettorale è il reddito di cittadinanza, capace di attrarre soprattutto i consensi dell’elettorato meridionale.

Il resto è storia recente. Nel corso della legislatura più pazza del mondo il M5s è sempre al governo, prima con la Lega, poi con il Pd e, infine, in una maggioranza di larghe intese. La sua conquista è proprio l’istituzione del reddito di cittadinanza: una misura che permette a Luigi Di Maio – quando poteva ancora permettersi di fare il tribuno populista – di affacciarsi al balcone per annunciare nientemeno che l’abolizione della povertà. Ma la gestione del potere logora il Movimento che nel corso degli anni non perde soltanto lo smalto dell’antipolitica trasformandosi a sua volta in casta, ma soprattutto perde consensi – oggi ridotti a meno di un terzo del 2018 – e perde parlamentari per via di una serie di fughe e di scissioni. Una larga parte dell’elettorato che nel frattempo ha abbandonato i grillini si è già spostata nell’area del centrodestra (prima Lega e oggi Fratelli d’Italia). Una parte sembra ritornare nell’ombra dell’astensionismo e dell’attesa. Gli eletti che sono via via entrati in dissenso con la leadership hanno preso la strada del ‘gruppismo de sinistra’ (come quelli di Alternativa) oppure si sono spostati verso posizioni di responsabilità di governo (come l’Ipf di Di Maio). Che cosa resta oggi nel M5s? La chiave sta nella caduta del governo Draghi. Tra i punti della famigerata lettera di Conte ci sono le bandiere identitarie del movimento: il reddito di cittadinanza, il salario minimo, gli interventi straordinari per famiglie e imprese sulla base dello scostamento di bilancio, le misure di redistribuzione in deficit, lo stop alle trivelle, ai rigassificatori, al termovalorizzatore di Roma e allo sfruttamento dell’energia fossile. Insomma, un mix di pauperismo, spesa pubblica fuori budget, ecologismo ideologico e decrescita felice che, coperto dal mantello del pacifismo filorusso e antiamericano, rispolvera le radici della sinistra radicale più tipica. Questa roba spiega l’attrazione fatale ancora viva in una parte consistente del Pd. Ma soprattutto annuncia l’esaurimento definitivo della capacità attrattiva del movimento. Gli spazi di consenso per una forza di sinistra radicale pura, infatti, appaiono davvero risicati. Il rispetto del vincolo dei due mandati elettorali può forse evitare la trasformazione dell’eletto pentastellato nel tradizionale, grigio funzionario del partito ideologico, ma elimina quel minimo di esperienza istituzionale e di governo maturata in questi anni con la conseguenza di rifornire e rilanciare il radicalismo e la purezza delle origini. E non basta paragonare Giuseppe Conte a Jean-Luc Mélenchon, il leader di La France Insoumise (magari raccattando intorno a lui un manipolo di personaggi sconclusionati come Alessandro Di Battista, Michele Santoro e Donatella di Cesare). L’exploit odierno del populismo di sinistra in Francia è semmai paragonabile a quello del grillismo nel 2018. In Italia siamo già alla fine della parabola. All’avvocato del popolo non resta che recitare, citando il poeta francese Paul Verlaine, “Je suis l’Empire à la fin de la décadence”: “Io sono l’Impero alla fine della decadenza”.

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