di Enrico Morando
Intervento svolto nel corso della presentazione del volume L’apocalisse della democrazia italiana di Schadee, Segatti e Vezzoni (ed. Il Mulino) – Roma, 31 gennaio 2020
Il mio non sarà un intervento organico. Farò tre osservazioni: una, la più rilevante, finalizzata a trarre dall’ottimo lavoro di Paolo Segatti e dei suoi coautori qualche indicazione per la politica del centrosinistra nel presente e nel futuro . Le altre due, finalizzate a togliermi due piccoli sassi dalla scarpa.
Il muro tra destra e sinistra
1- Il libro consente di dare una risposta chiara ad una domanda che ci siamo fatti (e ci è stata fatta) centinaia di volte, dopo le elezioni del 2013 e, soprattutto, dopo quelle del 2018: la dicotomia sinistra-destra è ancora una bussola affidabile per comprendere gli atteggiamenti degli elettori, i loro giudizi sulla politica, le loro scelte di voto? In questi anni, è stato un coro (in migliaia di trasmissioni televisive) e un profluvio (in migliaia di pagine) di NO. Il libro, documenta che la risposta giusta è SÌ.
Esaminando i giudizi, le posizioni, le scelte sia degli elettori, sia dei partiti su tre “contenuti” fondamentali – Europa, immigrazione ed economia -, lo studio di Segatti ed altri dimostra come sarebbe stato e sia impossibile comprendere le scelte compiute dagli attori della scena politica – cittadini e partiti -, a proposito di questi tre temi, senza usare anche (se non soprattutto) il criterio destra versus sinistra e viceversa.
Ciò è particolarmente evidente in tema di Europa: anche se in campagna elettorale le forze politiche hanno scelto di non parlarne o di parlarne poco (tornerò sull’argomento: è l’oggetto di uno dei “sassi” che voglio estrarre dalla mia scarpa), gli elettori usano la bussola destra-sinistra per orientare il proprio giudizio: il PD (e, più confusamente, i suoi alleati di estrema sinistra) è europeista, a favore dell’integrazione. La Lega di Salvini (e, più confusamente, i suoi alleati) è antieuropeista e addirittura antieuro. La stessa “facilità” di (auto)collocazione la troviamo sul tema immigrazione: destra contro, a partire dalla Lega di Salvini. Sinistra per, a partire dal PD. Sul tema economia le cose sono appena più sfumate. Ma resta la sostanza.
Dunque, emerge dallo studio di Segatti e altri un dato di fatto: senza usare le categorie classiche di destra e sinistra gran parte delle scelte degli elettori (e dei partiti, nel rapporto coi cittadini e con le altre formazioni politiche) risultano incomprensibili. Lo studio ci dice di più: lungi dall’essere in via di scomparsa, sul grande piano in cui si collocano e vengono collocati dagli elettori i partiti di destra e quelli di sinistra, si erge un solido muro, a separarli nel passato, nel presente e nel futuro prevedibile. È un muro che gli elettori di destra e di sinistra, rispettivamente, non vogliono superare: il salto da fare è troppo “alto”.
Il M5s? “In un’altra dimensione”
È a questo punto dell’analisi che gli autori (e noi con loro) si pongono una domanda ovvia: se è così, si può forse capire il successo crescente e rapidissimo della Lega (restando nel campo della destra, diventa il partito elettoralmente e culturalmente egemone), ma come la mettiamo con il Movimento 5 Stelle? Non è, il suo successo, frutto del “superamento” di destra e sinistra? Gli autori rispondono in modo, a mio giudizio, molto convincente: no, l’affermazione elettorale del M5S non contraddice il permanere – nella testa degli elettori – del criterio “destra-sinistra”, perché il Movimento 5 Stelle riesce a collocarsi “in un’altra dimensione”.
Secondo la loro analisi, l’offerta politica del M5S – usando la drammatica crisi di autorevolezza e credibilità dei due partiti egemoni a destra e a sinistra, Forza Italia e PD, e presentandosi come quella della forza che esce dalla democrazia rappresentativa per entrare nel nuovo mondo dell’uno vale uno, della democrazia diretta… -, ha consentito ai moltissimi (ahimè …) elettori di centro sinistra e ai molti elettori di centro destra (più o meno numerosi a seconda delle diverse realtà territoriali), delusi dai due partiti, di votare per un altro partito, senza oltrepassare il muro che separa destra e sinistra. Hanno potuto, questi elettori, votare M5S in piena coerenza con le loro immutate posizioni politico-culturali: hanno potuto – in poche parole – votare per se stessi.
Un’operazione – quella del M5S – che non avrebbe potuto avere successo senza la verticale caduta di credibilità e autorevolezza dei due partiti principali, PD e Forza Italia. Ma che è stata realizzata anche grazie all’intuizione di Casaleggio padre circa la possibilità di convincere che, mandati affa… i vecchi partiti, tutti, si sarebbe aperta la strada verso il governo di “ognuno per sé”.
L’elettore deluso, che constatava ogni giorno una crescente lontananza tra le sue posizioni e preferenze personali e quelle del partito in passato prescelto, trovava finalmente nel M5S la possibilità di riallineare il suo sentimento e la posizione del partito da votare. Che, a sua volta, sceglieva quella posizione, con tutta l’ambiguità necessaria, proprio perché fosse -o almeno potesse apparire- la sua, quella dell’elettore.
Un’analisi che spiega molto, secondo me, di ciò che è accaduto in Italia lungo il decennio 2008 – 2018 e che rende compatibili due fenomeni apparentemente inconciliabili: il permanere ben fermo, nella testa degli elettori, del discrimine tra destra e sinistra (con robusto muro di divisione) e l’elevatissima mobilità elettorale.
Tra l’altro, questa analisi consente di spiegare perché l’elettore – operato un primo riallineamento tra ciò che pensa/sente in politica e il partito votato -, dopo aver scelto il M5S perché collocato “in un’altra dimensione” rispetto a destra e sinistra, possa poi tornare sul piano dove stanno queste ultime, scavalcando per questa via il muro che le separa: il M5S come stazione di passaggio da sinistra a destra.
La crisi verticale del M5s
Tutto ciò chiarito, ci si pone una domanda: cosa succede ora, con la crisi verticale del M5S? Lo studio di Segatti e altri ci aiuta a rispondere. Dimostra infatti che, se a destra si afferma con nettezza indiscutibile la leadership della Lega (so che, nei prossimi mesi, verremo quotidianamente informati sui “dissidi ” più o meno segreti tra Salvini e Meloni, ma sono convinto che questo dato di fatto non cambierà), anche nel centrosinistra c’è un partito leader: il PD. Su ognuno dei tre temi di cui si discute nel libro – Europa, immigrazione, economia – gli elettori mostrano di considerare “naturalmente” il PD come partito di riferimento per chi è europeista (contro l’antieuropeismo di Salvini), ed è per l’apertura (contro la chiusura di Salvini), sia in tema di economia, sia in tema di governo dell’immigrazione. Vorrei essere chiaro: non è un giudizio di valore, quello che sto ricavando dal libro. È un fatto: chi è contro l’attuale leadership della destra (Lega e Salvini), considera quasi “istintivamente” il PD come l’asse dell’alternativa.
Cosa (ci) manca, allora? Dubito che ci manchi un nuovo nome o un nuovo simbolo. Anzi… Né mi sembra che ci manchi qualcosa che troveremo sulla strada della ricerca di alleanze politiche. Ci manca una reazione convincente a quella crisi di autorevolezza che gli autori mettono alla base del ciclone elettorale che ci ha travolti: leadership individuale e collettiva forte, almeno quanto è forte, nell’altro campo, quella della Lega e di Salvini. Una visione sul futuro del Paese, che si traduca in posizioni chiare e soluzioni praticabili per ciascuno dei problemi che interessano i nostri concittadini.
La dialettica nel Pd
Non è questa la sede per sviluppare il punto. Mi limiterò a dire che, secondo me, si esce dalla crisi di autorevolezza dentro cui siamo ancora immersi solo se diventa più chiara ed aperta la dialettica tra due linee che si stanno misurando nel PD (per ora, piuttosto confusamente).
La prima, è quella di chi ritiene che la priorità – per il Paese, e dunque per la sinistra e per il PD – sia da individuare nella esigenza di fornire rassicurazione, tutela e protezione a chi si sente minacciato dalla globalizzazione. Redistribuzione è, secondo questa posizione, la parola chiave. Per questo, il campo largo del centrosinistra andrebbe ricostruito attorno alla “alleanza strategica” con quel partito – il M5S – che fa dell’intervento assistenzialistico dello Stato il cuore della sua politica. Il sistema elettorale più adatto allo scopo? Sia pure a malincuore ( “noi vorremmo il turno di ballottaggio tra i primi due, ma…”), il proporzionale.
La seconda è quella di chi pensa che il principale problema del Paese sia la tendenza, ormai accelerata, al declino ( La società signorile di massa. Luca Ricolfi- La nave di Teseo). Tutto, dall’economia alla demografia, passando per l’andamento della produttività del lavoro e del capitale e giungendo alla paralisi di istituzioni economiche fondamentali come il sistema giustizia, ci segnala l’imminenza del raggiungimento di un punto di non ritorno. Se si vuole reagire – e i riformisti debbono e vogliono reagire – bisogna cambiare moltissimo. Quasi tutto. Per cambiare, ci vuole la democrazia decidente. Quindi, partito riformista a vocazione maggioritaria ( che non vuol dire rifiuto delle alleanze) e sistema elettorale (turno di ballottaggio tra i primi due partiti/coalizioni), che consenta ai cittadini di pronunciarsi contemporaneamente sulla rappresentanza e sul governo.
L’Europa in questione
2- Nel capitolo dedicato al tema Europa, si scrive giustamente che nessun partito – nella campagna elettorale per le Politiche del 2018 – ha davvero messo l’accento su questo tema. Ciò non ha impedito agli elettori di “sentire” il PD come partito “naturalmente” pro-integrazione e la Lega come partito “naturalmente” pro-disgregazione. Ma questo sentimento degli elettori nasceva dalla conoscenza – più o meno approfondita – del posizionamento tradizionale dei due partiti. Non dalla capacità dei partiti stessi di lavorare all’implementazione di questa rispettiva posizione di partenza, anche per tener conto delle enormi novità intervenute. In sostanza: Salvini mette un po’ di sordina, in campagna elettorale, ai suoi tenori antieuro? Il PD si adegua volentieri: se non ne parla lui, non ne parliamo neppure noi…
Noi di Libertà Eguale provammo a dire – prima del voto – che si trattava di un enorme errore politico, per la banale ragione che sia la possibilità di affrontare e risolvere i principali problemi del Paese, sia il rischio di un suo rapido precipitare verso il declino irreversibile, avevano in Europa la loro chiave di soluzione (esempio: Bilancio dell’areaeuro o Italexit?). Ma non ci fu verso…
Darci retta, e incentrare la campagna sull’Europa, avrebbe cambiato il risultato? Probabilmente no. Ma ci avrebbe dato ben altra autorevolezza (siamo sempre là…) nell’affrontare il dopo voto. Non lo dico io. Lo dice la cronaca della crisi del Governo gialloverde Conte 1: essa interviene quando si rendono conto che, rimanendo nell’euro, non possono fare la legge di bilancio 2020-2022, perché non vogliono tornare indietro sul folle aumento di spesa corrente primaria di Quota 100 e Reddito di Cittadinanza. E lo dice la cronaca della formazione del Governo giallorosso Conte 2. Che non sarebbe stata possibile senza la divaricazione tra Lega e Movimento 5 Stelle sul voto per la Presidente della Commissione europea…
Perché commettemmo un errore così grave e così gravido di conseguenze? Perché, malgrado il nostro solido posizionamento (nella testa degli elettori) europeista, non abbiamo resistito alla tentazione di scaricare sull’Unione un bel po’ delle nostre carenze. Ricordate la proposta del 3% di deficit comunque, a prescindere dal ciclo?
La vicenda del Governo Monti
3- Infine, il Governo Monti. I nostri autori individuano molti fattori della crisi di autorevolezza che ha colpito il PD e Forza Italia. Un posto di un certo rilievo, tra questi ultimi, occupa la diffusa valutazione critica dei cittadini sopra il fatto che i partiti maggiori (il PD, in particolare) votarono, sì, a favore delle misure di emergenza necessarie per evitare il default, consentendo a Draghi di adottare una politica monetaria ultraespansiva, ma “non ci misero la faccia”, non assumendosi apertamente la responsabilità di quelle scelte.
Anche in questo caso, prima della campagna elettorale del 2013, noi di Libertà Eguale fummo quasi lapidati sulla pubblica piazza perché – anche invitando il Presidente Monti alla nostra Assemblea annuale di Orvieto – cercammo di convincere sopra la necessità/opportunità di fare una scelta coerente con la responsabilità che ci eravamo assunti, presentando una coalizione che non fosse “di sinistra” come quella che veniva emergendo per iniziativa di Bersani, ma effettivamente di centrosinistra, Monti compreso.
Sappiamo tutti come è andata a finire. A proposito: Monti riportò il 10% dei consensi. Una percentuale che oggi in Italia raggiungono solo, di sicuro, due partiti…
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)