di Stefano Ceccanti
Intervento pronunciato alla Camera dei Deputati il 19-11-2018
Inizio con alcune notazioni di metodo su cui hanno già parlato altri colleghi. Noi potremmo dare da studiare questo lavoro, soprattutto in Commissione, come un esempio di come non si fa un’istruttoria legislativa in Commissione; un caso negativo, di scuola, perché il nostro Regolamento, le nostre regole di democrazia parlamentare vogliono che il testo arrivi ben istruito in Assemblea, dove, purtroppo, come sappiamo, quasi solo i membri della Commissione, che l’ha trattato fino in fondo, conoscono, fino in fondo, tutte le sfumature di questo lavoro.
Però, noi abbiamo già avuto un testo che nasceva eterogeneo e viziato da un’impostazione ideologica; perché trattare i partiti insieme alla lotta contro la corruzione? Sarebbe banale dire che c’è evidentemente un’area di sovrapposizione tra questi due aspetti, che va giustamente repressa.
Ma questo modo di procedere rivela una sfiducia verso la democrazia rappresentativa, perché la democrazia rappresentativa, in ultima analisi, è strutturata sui partiti.
Ora, tutti noi sappiamo che la democrazia rappresentativa non si può difendere così com’è e va migliorata, tant’è che nella scorsa legislatura, la legislazione che è stata fatta sui partiti partiva da un’altra connessione: finanziamento pubblico, sia pure limitato, e democrazia interna; chi non ha, chi non vuole avere gli standard minimi di democrazia interna non entra nel sistema limitato del finanziamento pubblico.
Questo era un modo moderno di impostare la questione della riqualificazione della democrazia rappresentativa; ma, se invece si collega, partiti politici e corruzione, significa che, in ultima analisi, si diffida della democrazia rappresentativa e si immagina che puri dalla corruzione possano esistere solo dei tentativi di democrazia diretta, dove, normalmente, purtroppo, “diretta” è il participio passato di dirigere.
Questo è il punto fondamentale che, già, rivelava fin dall’inizio questa grave distorsione, che non è, d’altronde, la prima volta che si manifesta. L’idea di delegittimare tout court la democrazia rappresentativa ha portato alcune disgrazie storiche in vari Paesi, ma si è ripetuta in altri momenti; ricordo a tutti, in quest’Aula, uno degli ultimi interventi di Aldo Moro a difesa di un innocente, del senatore Luigi Gui, quando ricordò che non bisognava trasformare lo scontro politico, anche duro, nel tentativo di processare gli altri nelle piazze, perché la cosa riemergente è questa scorciatoia giustizialista per cui l’altro da sé deve essere per forza corrotto e non un democratico che ha idee diverse da sé.
Questa era già la distorsione iniziale; a questa distorsione iniziale si è aggiunta la forzatura di voler inserire un elemento chirurgico sulla prescrizione, di cui parleremo domani anche in sede di pregiudiziali. Con forzatura, bisognava che si facesse subito, a rotta di collo, una votazione di corsa, allargamento del perimetro, urgenza mostruosa, per inserire una norma che dovrebbe essere applicabile dal 2020. Una mostruosa sproporzione tra la fretta e l’efficacia della norma che non ha giustificazione alcuna, se non in un intento di propaganda, perché qui, insieme ad alcune norme ragionevoli, c’è molta propaganda.
Questo è il punto di fatto; nessuno è contrario ad avere norme rigorose anticorruzione, ma le norme rigorose non sono le norme di propaganda. Allora, il collega Giorgis aveva presentato alcuni emendamenti che poi non ha ripresentato per l’Aula, perché il contesto evidentemente non è ancora del tutto maturo, se uno dei metodi per ragionare sui rischi di corruzione e sui rischi di squilibrio tra il potere politico e i poteri che non sono politici, è ragionare se il sistema di finanziamento che noi abbiamo sia adeguato o meno. La scorsa legislatura ha ristretto al minimo l’intervento pubblico al solo due per mille. Il collega Giorgis ci ha proposto di discutere, in Commissione, se non sia il caso di ragionare sul cosiddetto inoptato, in modo parallelo al sistema dell’otto per mille per le confessioni religiose, o se questa quota del 2 per mille sia eccessivamente bassa rispetto ai compiti pubblicistici che hanno i partiti politici.
È un dibattito che ci porteremo avanti senz’altro e in tempi, magari, diversi, in cui potremo fare una analisi più approfondita dei limiti e dei pregi dell’attuale normativa. Se si fosse adottata quella linea emendativa del collega Giorgis, si sarebbe anche potuto pensare di mettere limiti più rigidi al finanziamento privato, ma, se invece si fa la scelta di mantenere il finanziamento pubblico in quei limiti assolutamente restrittivi del 2 per mille, tutta la catena di norme iper burocratiche, dai registri da notai, dichiarazioni congiunte, a una soglia minima di 500 euro, in assenza, appunto, di un finanziamento pubblico forte, che cosa producono? Producono che nei contribuenti più coscienziosi, nei candidati più coscienziosi, nelle forze politiche più serie, probabilmente, c’è una difficoltà, perché inserisci tali e tanti elementi di burocrazia che scoraggiano effettivamente questo.
Una soglia di 500 euro: si scende da 5.000 euro a 500 in un colpo solo! E invece i candidati più spregiudicati, le forze politiche magari più gassose che si presentano all’ultimo momento, alcuni contesti territoriali meno controllati, dove il monopolio della forza legittima dello Stato è meno forte, spingeranno ad un finanziamento in nero, e quindi spingeranno ad una concorrenza sleale delle forze politiche. Queste cose, se non siamo dei demagoghi, dobbiamo dircele.
Per questo l’idea di tenere un finanziamento pubblico estremamente limitato, e di mettere le braghe alla storia in tutto ciò che è più di 500 euro, si rivela non un miglioramento della democrazia rappresentativa, ma una scorciatoia demagogica che porta ad un suo peggioramento. Per questo noi invitiamo (se ne è dibattuto in Commissione, poi è stato bloccato anche qualche emendamento un minimo ragionevole da forzature interne alla maggioranza): ragioniamo seriamente sulle conseguenze a cui questi limiti eccessivi possono portare.
In tutto questo contesto di eccessiva rigidità, c’è però un’eccezione inspiegabile invece di eccesso di condiscendenza. Perché mettere degli obblighi di trasparenza per i candidati alle elezioni e svincolare i comuni sotto i 15.000 abitanti? Comuni medio-piccoli, dove spesso magari, proprio perché la dimensione di scala è più bassa, i rischi che le forze politiche siano più deboli rispetto anche a piccoli movimenti di elettorato o di quadri politici sono più pericolosi. Lì invece questo elemento va rafforzato!
E poi, in un’epoca in cui noi andiamo alle elezioni europee, in cui i nostri partiti hanno o cercano delle collocazioni europee, si ha questa norma di sovranismo politico, per cui possono contribuire solo i cittadini presenti nelle liste elettorali, come se un elettore di Podemos non potesse, non volesse finanziare il Movimento 5 Stelle, o uno qualsiasi dei partiti socialisti e democratici europei, un contribuente, a cui sta antipatico il Partito Democratico, in vista magari delle elezioni europee, voglia finanziarlo, o un elettore, un militante della CDU non volesse, potesse finanziare Forza Italia. Perché questo sovranismo politico? Perché anche qui è un approccio ideologico: se noi pensiamo a un sistema di doppia sovranità, sovranità statale da una parte e sovranità europea dall’altra, non c’è niente di meglio che incentivare una democrazia rappresentativa europea. E quindi ben vengano le varie forze politiche che si integrano sempre tra di loro, anche la possibilità di avere in cittadini di altri Stati un elemento di vicinanza, e così via.
Con questo spirito, quindi, noi proseguiremo l’opposizione a buona parte di questo testo, perché alcune delle cose positive che si potevano fare sono state sopraffatte da demagogia e da una sfiducia inaccettabile verso la democrazia rappresentativa.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.