di Stefano Ceccanti
Corte costituzionale e aiuto al suicidio: consenso crescente e motivato alla parziale rinuncia a punire
Se si considerano le reazioni alla prima ordinanza della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio, al comunicato che anticipava la sentenza e il quelle al testo definitivo della medesima non si può non rilevare un consenso crescente. Ciò nonostante il fatto obiettivo che la Corte abbia sviluppato i suoi ragionamenti in modo piuttosto lineare nel tempo. La cosa, in generale, non deve stupirci più di tanto se si pensa che anche la legge sul testamento biologico, analogamente a quella sulle unioni civili, contestate al momento dell’approvazione, hanno visto poi rapidamente consolidare un consenso pressoché unanime. Tant’è che si sono perse per strada le notizie su possibili raccolte di firme su referendum abrogativi.
Ciò anche al netto di una più raffinata capacità di discernimento sempre più favorita in questo periodo dall’attuale pontificato, più attento all’obiettiva complessità dei profili giuridici rispetto a facili assertività di principio, a reazioni difensive per il timore di derive libertarie unilaterali che si esprimeva nella retorica dei cosiddetti principi non negoziabili. Il pontificato di Francesco non parte comunque affatto da zero se si considera che l’uso limitato del diritto penale per affermare principi è un portato del Concilio Vaticano II, in particolare della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae e che aveva avuto ulteriori sviluppi anche nell’Enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II, in particolare al suo paragrafo 71. Non c’è però dubbio che solo in questa fase il sistema di distinzioni tra legge morale e legge civile e sulla possibilità di rinuncia a punire comportamenti ritenuti negativi sembra acquisire un maggiore rilievo coerente e sistematico. Lo hanno spiegato bene Giorgio Armillei in questo contributo https://www.landino.it/blog/cattolici-e-giustizia-penale-di-giorgio-armillei e padre Francesco Occhetta su “Civiltà Cattolica”del 2 novembre.
In ogni caso, al di là delle cause, il consenso cresce perché il percorso argomentativo appare particolarmente solido su quella che è una parziale rinunzia a punire. Andiamo a vederlo nel dettaglio.
La Corte nella sentenza 242/2019, riparte dalla prima sentenza e quindi dalle sue acquisizioni fondamentali, in particolare dal rifiuto di opporre in maniera unilaterale due principi: il diritto alla vita e quello all’autodeterminazione. Lo Stato protegge la vita ma non fino al punto di condannare sempre e comunque il singolo che, a determinate condizioni, decide di “accogliere la morte”, quasi che la persona fosse di sua proprietà; nel contempo accetta l’autodeterminazione, ma si pone a difesa di chi volesse usarla contro soggetti deboli e vulnerabili spingendoli al suicidio, con una obiettiva eterogenesi dei fini delle teorie libertarie (punto 2.2).
Per questo l’aiuto al suicidio resta un disvalore perché rompe i legami comunitari, ma ciò non comporta che vada sempre punito negando a priori qualsiasi forma di autodeterminazione. Lo Stato può arrestarsi e rinunciare a punire, analogamente a quanto accade con l’interruzione volontaria di gravidanza nei casi previsti dalla legge (richiamata esplicitamente nel testo). La Corte ricorda quindi di aver individuato un’area di non punibilità, in cui il ricorso alla pena sarebbe incostituzionale, in relazione a “una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Se la legge sul testamento biologico ha già consentito di chiedere e ottenere la sedazione profonda “non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. Questo passaggio è quello chiave sia come fondamento della decisione sia come richiamo a un precedente intervento del Parlamento che consente di evitare vuoti in modo non arbitrario (punto 2.3).
Consapevole della delicatezza delle questioni e delle diverse modalità possibili con cui configurare concretamente queste situazioni, a questo punto la Corte ricorda di aver lasciato tempo al Parlamento, ma che esso è passato invano e che non appare neanche “imminente (punto 3).
Come poteva però la Corte agire non creando un semplice vuoto (che sarebbe stato pregiudizievole per i soggetti vulnerabili) e non umiliando il legislatore e la sua discrezionalità, dal momento che il tempo era stato lasciato perché più soluzioni erano astrattamente possibili, che non c’era cioè “un contenuto costituzionalmente obbligato” la cui presenza invece legittima di solito le sentenze additive? Come costruire una sentenza di quel tipo, che aggiunge disposizioni, come se si trattasse di emendamenti parlamentari, e che è immediatamente operativa, se c’era e c’è un margine di discrezionalità politica? La Corte lo spiega chiarendo che essa ha finito per seguire strettamente la logica della legge sul testamento biologico già richiamata in precedenza. E’ grazie a quella che il vuoto poteva essere riempito e si superava il problema dell’invasione di campo finendo col rimettersi a quanto già fatto dal legislatore stesso. La procedura con la quale l’intervento del medico rientra nelle condizioni di non punibilità è infatti ripresa di peso dalla legge 219 del 2017 sul testamento biologico (punto 5) senza peraltro che ci possa essere alcun vincolo di coscienza per il medico (punto 6). Non si tratta infatti di un diritto soggettivo del paziente né di una depenalizzazione del reato, ma di uno spazio limitato di non punibilità, di rinuncia a punire.
Insomma si aggiungono disposizioni ma in sostanza non ci si sostituisce al legislatore perché il materiale per riempire il vuoto è ripreso da una legge di poco precedente. E’ quello che ragionevolmente il Parlamento avrebbe fatto se fosse stato in grado di superare lo stallo. Se si può parlare di supplenza, sostiene in sostanza la Corte, è il Parlamento che ha votato quella legge che supplisce se stesso e noi siamo in fondo solo i tramiti di questo passaggio. Se poi le Camere vorranno e potranno fare qualcosa di meglio, seguendo un analogo equilibrio tra diritto alla vita e all’autodeterminazione, sarà bene, conclude la Corte, che lo facciano prima possibile: ve lo ribadiamo “con vigore” affermano i giudici (punto 9).
Come risolvere infine il caso da cui la questione si era originata (Cappato-Dj Fabo) ed eventuali casi analoghi precedenti, visto che la sentenza non può essere retroattiva mutuando una procedura prima non utilizzabili? I giudici non puniscano, dice pragmaticamente la Corte, se ritengono che ci siano state “garanzie sostanzialmente equivalenti.” (punto 7).
E’ tempo che anche la politica parlamentare riprenda questa pacatezza e razionalità, senza ricorrere a facili unilateralità, visto che essa è sempre più condivisa, anche grazie alla Corte, dalla società italiana.
Pubblicato su www.viandanti.org
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.