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Covid-19, l’interazione tra pandemia e ambiente ci chiede responsabilità

Andrea Ferrazzi mercoledì 18 Marzo 2020
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di Andrea Ferrazzi

 

Ora tutte le nostre energie e risorse economiche devono essere orientate al superamento dell’emergenza sanitaria e a salvare le nostre imprese, i posti di lavoro, l’intero tessuto economico.

Ma quando l’emergenza sarà superata dovremo avere una nuova visione del mondo in grado di affrontare in modo radicalmente diverso il nostro agire.

La scienza dimostra vi è un nesso tra la pandemia di coronavirus e lo stress che l’età geologica attuale, l’Antropocene, ha inflitto agli ecosistemi planetari a causa dei fattori antropici. Certamente le epidemie da virus non sono una novità, ma l’espansione e l’azione umana, quella che gli studiosi ambientali chiamano The great accelaration, ha determinato un mutamento strutturale delle condizioni che hanno contribuito al trasformarsi delle infezioni, un tempo circoscritte, in epidemie se non addirittura, come nella Sars e nel Coronavirus, in pandemie.

Il commercio illegale di fauna selvatica (il “fatturato” nel nostro paese è uno dei maggiori tra tutte le voci che caratterizzano gli ecoreati), la sovrappopolazione umana nelle metropoli in via di progressivo e inesorabile aumento, la deforestazione, la consistente espansione degli allevamenti intensivi, il consumo del suolo e il suo utilizzo: tutti fattori che hanno portato alla migrazione di innumerevoli specie animali e alla contaminazione di habitat umani con microorganismi sconosciuti.

Non possiamo far finta di non vedere che tutte le epidemie e le pandemie contemporanee hanno origine zoonotica (dall’animale all’uomo): Ebola, Sars, Mers, ma, secondo un team di ricercatori dell’Universita La Sapienza, anche Zika e H1N1. Così come SARS-CoV-2, l’attuale Coronavirus.

Nel rapporto Frontiers 2016 dell’Unep (United Nations Environment Program) si leggeva chiaramente che le zoonosi (le malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo) “sono in aumento, mentre le attività antropiche continuano a innescare distruzioni inedite degli habitat selvatici e minacciano lo sviluppo economico, il benessere animale e umano e l’integrità degli ecosistemi”. Il solo costo economico causato dalle malattie emergenti, prima del Coronavirus, é stato di 100 miliardi di dollari: il costo economico del coronavirus alla fine della crisi sarà di dimensioni ben maggiori.

Lo stesso cambiamento climatico sarebbe strettamente legato ai nuovi fenomeni pandemici. L’inverno che sta per finire è stato il più caldo dell’ultimo secolo. Febbraio in Italia è stato il più caldo di sempre con 2,76 gradi in più della media storica e l’80% di piogge in meno. Lo scioglimento dei ghiacci non è devastante solo per l’innalzamento del livello dei mari, ma, solo per fare un esempio, uno studio americano su un ghiacciaio del Tibet ha rivelato che lì sono intrappolato 33 gruppi di virus, dei quali 28 sconosciuti, che a causa del disgelo sarebbero liberati nell’aria fino a poter raggiungere le falde acquifere.

Lo stesso inquinamento atmosferico avrebbe un rilevante ruolo nella propagazione del virus.

L’Agenzia di stampa nazionale DIRE ha diffuso il 17 marzo alcune conclusioni di studi scientifici, dai quali emerge che il particolato atmosferico agisce da efficace “carrier”, ovvero vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Il particolato atmosferico è inoltre un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni. Un gruppo di ricercatori ha esaminato i dati sull’inquinamento pubblicati dalle ARPA – le Agenzie regionali per la protezione ambientale – e messi a confronto con casi di contagio da COVID-19 riportati sul sito della Protezione Civile. Ebbene, è stata individuata una stretta correlazione tra le due questioni. In Pianura padana si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di 2 settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico, che hanno esercitato un’azione di “boost”, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia. “Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura padana hanno prodotto un boost, un’accelerazione alla diffusione del COVID-19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai”, afferma Leonardo Setti dell’Università di Bologna.

Gli fa eco Gianluigi de Gennaro, dell’Università di Bari: “Le polveri stanno veicolando il virus. Fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. Ridurre al minimo le emissioni e sperare in una meteorologia favorevole”.

Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), aggiunge: “L’impatto dell’uomo sull’ambiente sta producendo ricadute sanitarie a tutti i livelli. Questa dura prova che stiamo affrontando a livello globale deve essere di monito per una futura rinascita in chiave realmente sostenibile, per il bene dell’umanità e del pianeta. In attesa del consolidarsi di evidenze a favore dell’ipotesi presentata, in ogni caso la concentrazione di polveri sottili potrebbe essere considerata un possibile indicatore o ‘marker’ indiretto della virulenza dell’epidemia da Covid19”.

Grazia Perrone, docente di metodi di analisi chimiche della Statale di Milano, conclude: “Il position paper e’ frutto di un studio no-profit che vede insieme ricercatori ed esperti provenienti da diversi gruppi di ricerca”.

Non è forse un caso, dunque, che i focolai del Coronaviris siamo stati nelle inquinatissime aree della Provincia di Hubei in Cina e nella Pianura Padana, una delle aree più inquinate del pianeta.

Sono questioni epocali, inedite, dal potenziale devastante che riguardano i principi di sostenibilità della vita umana.

Gli scienziati chiamano in campo i decisori politici e istituzionali, che devono affrontare queste questioni con una nuova comprensione e con capacità di visione olistica, sistemica, integrata. Ma anche i cittadini tutti sono chiamati ad acquisire una più profonda sensibilità sulla questione ambientale e sui cambiamenti climatici. Allo stesso modo è la stessa scienza chiamata in causa, nella propria capacità di essere elemento di crescita umana sostenibile. Ma è anche il mondo degli intellettuali ad essere chiamato in gioco, è la stessa Filosofia, ammoniva Hans Jonas, a doversi porre contemporaneamente il tema dell’uomo e quello della natura, non lasciandolo alla sola scienza.

Siamo tutti parte, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, di un unico ecosistema. È oggi il tempo di comprendere che è non più rinviabile un pensiero integrale capace di cogliere l’umanità nel sistema in cui vive e che la riflessione sull’uomo non può più prescindere, come ci insegnava già 50 anni fa il già citato Hans Jonas, dalla riflessione sulla natura e sulla necessaria “Etica della responsabilità”. È l’intera biosfera del pianeta – sosteneva il grande pensatore – di cui dobbiamo essere responsabili. Da qui il nuovo imperativo categorico che lui, kantiano, così riformulava: “Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”.

Di questo, nulla meno di questo, siamo oggi più che mai responsabili.

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