di Danilo Paolini
«Nella vita democratica di una Nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico… Io ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone». Sono parole tratte dalla prime battute del discorso che Bettino Craxi, segretario politico del Partito socialista italiano, pronunciò alla Camera nel luglio del 1992, cinque mesi dopo l’inizio del ciclone Tangentopoli, che avrebbe di lì a poco ridotto in macerie la cosiddetta Prima Repubblica. Matteo Renzi ha fatto bene a ripescarle dagli archivi del Parlamento, ricordando quel discorso il 12 dicembre scorso in Senato, per contestare genesi e modalità dell’inchiesta giudiziaria sulla Fondazione Open.
In questo modo l’ex presidente del Consiglio è tornato ad affrontare due aspetti della vita democratica che, pur incrociandosi spesso fin dagli anni 50 del Novecento, dal ’92 sono divenuti inscindibili: il rapporto tra i poteri dello Stato (legislativo ed esecutivo da una parte, giudiziario dall’altro) e i meccanismi di finanziamento della politica. A Craxi, invece, va riconosciuto di aver capito subito qual era la posta in palio: non solo l’indubbia questione morale che investiva gravemente il suo Psi e la “partitocrazia”, che anzi il leader socialista riconobbe apertamente, bensì la tenuta dell’intero sistema politico-parlamentare scaturito dalla Liberazione dalla dittatura fascista e dall’Assemblea Costituente. Spesso si riduce quel discorso a una generica e generale “chiamata di correo”, ma in realtà Craxi auspicava che la democrazia parlamentare trovasse in sé la forza e gli anticorpi per rinnovarsi senza rinnegare se stessa, scongiurando quel «vuoto» che tutto «logora», «disgrega» e «decompone».
Quasi trent’anni dopo, in effetti, si può dire che diversi elementi stanno a indicare una decomposizione del quadro politico, il logoramento del rapporto tra i cittadini e i partiti, la disgregazione degli stessi partiti, con continue scissioni e ricomposizioni “a freddo”. Perché il vuoto, quando si forma, in qualche modo viene riempito. Dalla magistratura, per esempio. Da partiti-contenitore progettati a tavolino. Da movimenti, almeno in partenza, duramente ostili alla democrazia parlamentare. Da un cantiere, perennemente aperto, di riforme istituzionali ed elettorali dettate quasi sempre dalle presunte convenienze della maggioranza del momento, nell’illusione di recuperare con un colpo di bacchetta magica stabilità, autorevolezza, sintonia con un popolo per anni lasciato in balia di impulsi demagogici.
L’ ultimo fenomeno che prova a riempire il vuoto è quello delle Sardine, che almeno chiede una politica non più urlata e superficiale. Ma anche questi ‘ragazzi’, cioè questi giovani concittadini, non sembrano del tutto immuni dalla tentazione di sostituirsi ai partiti, sempre stando bene attenti a non pronunciare quella brutta parola, quasi fosse ormai consegnata alla damnatio memoriae. La responsabilità principale è proprio di una politica che, gradualmente, ha rinunciato a se stessa. Prima quasi tutte le forze politiche si chiamavano ‘Partito’ e le altre, orgogliosamente, così si definivano.
Accanto, poi, c’era l’aggettivo che le caratterizzava di fronte agli elettori e le qualificava idealmente: cristiano, comunista, socialista, liberale… Poi vennero le inchieste giudiziarie (ma l’Italia non è l’unico Paese europeo ad averle sperimentate e ad aver visto leader politici colare a picco, però altrove i partiti sono rimasti in piedi) e, poco prima, era crollato il muro di Berlino, innescando un processo di faticoso rimescolamento a sinistra nel Paese che aveva avuto il più grande Partito comunista d’Occidente. Così oggi, tra le forze politiche maggiori, c’è un solo ‘Partito’ che si definisce tale e, accanto, porta un aggettivo che dovrebbe essere piuttosto un presupposto: democratico.
Quanto al problema enorme del finanziamento della politica, si è saputo replicare, dapprima, con un’ulteriore degenerazione (i cosiddetti ‘rimborsi elettorali’) e, in un secondo momento, cancellando ogni forma di finanziamento pubblico. Per paradosso, nel momento storico di maggiore disaffezione verso la politica, si è introdotta la possibilità per i cittadini di versare contributi e devolvere il 2 per mille dell’Irpef al proprio partito preferito…
Forse, allora, è tempo di capovolgere i termini della questione, ripartendo proprio dai partiti. Che tornino a essere riconoscibili davanti agli elettori per una visione dell’Italia e del mondo, non per slogan o programmi magari furbi, anche urticanti e persino odiosi, talmente generici sulle questioni ‘vere’ da essere inutili; che si dotino di una classe dirigente seria, preparata, onesta di fatto e intellettualmente; che portino avanti una politica di bandiera (e non di bandierine su singoli temi o microtemi) nel rispetto della Bandiera che tutti ci rappresenta. Così, magari, la grande voglia di partecipazione che si coglie nelle piazze s’incanalerà di nuovo nella militanza, nell’adesione ideale, nella partecipazione massiccia e convinta al voto, nelle sane dinamiche di una democrazia parlamentare.
(Pubblicato su Avvenire il 17 dicembre 2019)
Danilo Paolini è caporedattore, responsabile della Redazione romana ed editorialista di Avvenire.