di Stefano Ceccanti*
Negli scorsi mesi abbiamo detto molte cose su Giorgio, sulle cose che ci ha insegnato nella sua vita e con questi scritti raccolti nel libro. Se a questo punto ci proponessimo di fare un’altra lettura compiuta, un altro ricordo organico, finiremmo col ripeterci. Per questo adotto oggi un altro criterio. Mi limito solo a due testi, ai due forse che letti anche a distanza ci appaiono più attuali.
La politica estera
Parto dalla politica estera, la prima politica, nel testo su Russia e Ucraina, che troviamo da pag. 208 a 212. del 25 aprile 2014, al termine dell’invasione russa in Crimea. Per Armillei siamo di fronte a un conflitto tra democrazie e autocrazie, che richiede una vigorosa reazione anzitutto della Nato. Cadrebbero quindi in errore quegli europei e quegli uomini di sinistra che proponessero in queste circostanze un mix tra una certa visione del cosiddetto primato della politica e un pacifismo irenico e neutralista. Viceversa Armillei richiama, al di là degli scacchi subiti, al realismo cristiano di Obama, alla interiorizzazione dell’elemento tragico della politica internazionale che lo aveva ad esempio portato ad accettare l’operazione per l’eliminazione di Bin Laden.
C’è qui tutto il senso di una certa cultura della mediazione contro forme di massimalismo etico, incapace di fare i conti con i mezzi imperfetti della politica nazionale, in conflitti che vengono da lontano. Basti pensare alla scelta atlantica nella consapevolezza di De Gasperi contro impossibili neutralismi nel periodo della Guerra Fredda, autorevolmente sostenuto però anche nel mondo cattolico, o ai conflitti che ci hanno attraversato a inizio degli anni ’90 con la prima Guerra del Golfo legalmente decisa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e all’intervento in Serbia della fine di quello stesso decennio che fu ritenuto dai più legittimo nonostante l’impotenza delle sedi legali. In questi ultimi due conflitti avemmo tutti quanti dei maestri come Pietro Scoppola e Nino Andreatta che sostennero positivamente quelle decisioni contro quelle che loro chiamavano forme di “astratto pacifismo”. Un insegnamento tanto più importante, che si coglie in filigrana in questo e in altri scritti di Armillei, tanto più che a differenza della scelta della Nato nel secondo dopoguerra, nel frattempo la Santa Sede aveva visto evolvere il proprio ruolo diplomatico internazionale e, anche per sfuggire all’arruolamento nelle guerre di civiltà tra religioni, nei casi di conflitto aperto non si schiera mai da nessuna delle parti e si ritaglia un ruolo terzo criticando comunque l’uso della forza sia quando legale (prima Guerra del Golfo) sia quando comunque legittimo (Serbia-Kossovo). In queste situazioni il senso delle mediazioni e della distinzione di ruoli non può che portare i cattolici in politica dentro le democrazie occidentali a sostenere la causa delle democrazie contro le autocrazie, degli aggrediti rispetto agli oppressori. Riemerge invece costantemente, anche in questo tempo, l’idea che i cattolici dovrebbero semplicemente prospettare al proprio Paese di essere dipendenti dal ruolo diverso della diplomazia vaticana, giungendo con questa scorciatoia clericale al pacifismo irenico e neutralista criticato da Armillei, o astratto come amava dire Scoppola. Anche quando questo messaggio può apparire controcorrente vale quindi la pena di ribadirlo e di rinviare a quelle pagine profetiche.
Il Partito Democratico
Il secondo testo, molto più vicino a noi, è quello sul Partito Democratico di Letta, da pagina 185 a 189 del 29 maggio 2021. Anche se la politica non è mai determinista, quel testo sembra prevedere scientemente anche tutto quello che è successo in seguito. Anche per il modo con cui Letta è stato scelto, cooptazione anziché competizione, Armillei è scettico sin dall’inizio sulla possibilità e capacità di Letta di trovare una strada alternativa rispetto alla strategia d Zingaretti, eletto di fatto in una prospettiva di collaborazione subalterna al M5S, soprattutto quando la prima concreta proposta di policy era stata quella (poi reiterata in campagna elettorale) relativa alla dote per i giovani legata alla tassa di successione. Proposta che Armillei critica non tanto in sé ma perché inserita in una logica di mera redistribuzione con erogazioni monetarie non accompagnata da nessuna riforma regolatoria a favore di pari opportunità, in una logica di recupero dei voti tradizionali fuggiti verso il M5s per proposte analoghe come quelle del reddito di cittadinanza. Armillei vede quindi di fronte a sé un partito che pur avendo cambiato segretario, e un segretario in partenza orientato su una cultura politica moderna come quella dell’Arel di Andreatta, resta imprigionato nelle varie retoriche di riforme di struttura,, di riformismi forti costruiti sull’idea di terze vie della tradizione Pci tra socialismi reali e socialdemocrazie nordiche, tradizionalmente prive di attrattiva sia per gli elettori del bisogno sia per quelli del merito. Tutti i dilemmi che il Pd di oggi si ritrova esattamente di fronte a sé e per il quale, nonostante tutto, non sembra avere reali alternative. Purché si ricordi che il suo obiettivo come scrive Armillei è quello della “modernizzazione liberale maggioritaria”.
*Intervento all’incontro dell’Azione Cattolica Italiana di Terni Narni Amelia per la presentazione del volume: Giorgio Armillei. La forza mite del riformismo, a cura di Stefano Ceccanti e Isabella Nespoli, il Mulino, Bologna 2022 (Venerdì 11 novembre 2022)
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.