di Giovanni Cominelli
Circa 40 milioni di Curdi sono distribuiti tra Turchia sud-orientale, Iran nord-occidentale, Iraq settentrionale, Siria settentrionale, Armenia, Anatolia centrale, Khorasan nell’Iran orientale, Afghanistan. Sono però presenti anche nelle maggiori città della Turchia occidentale, oltre che in Germania e Scandinavia. Divisi al loro interno i sotto-etnie, con lingue-dialetti diversi e differenti credenze religiose, non sono mai riusciti a costituirsi in Stato.
Lo stato curdo che non è mai nato
In realtà, il Trattato di Sèvres del 1920, formulato in 433 articoli, siglato tra le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, prevedeva la formazione di uno Stato curdo, all’interno delle aree di influenza della Gran Bretagna – Iraq, Transgiordania, Palestina – e della Francia – Siria, Libano, le zone confinanti dell’Anatolia sud-orientale, antica Cilicia (la costa sud-orientale della Turchia attuale, appena a Nord di Cipro), Kurdistan. Sèvres fu la festa grande del colonialismo anglo-francese. E anche italiano: la Libia, il Dodecanneso. I confini tracciati allora con il compasso coloniale sono stati più volte attraversati da eserciti contrapposti.
Quanto al lato sovietico della questione curda, le aree dell’Azerbaigian sovietico abitate dai Curdi furono raggruppate dal 1920 al 1929 in un’unità amministrativa – il cosiddetto “Kurdistan rosso” – che non risparmiò loro persecuzioni e deportazioni. Dopo la fine dell’URSS, iniziarono i conflitti caucasici. I Curdi furono privati dagli Armeni dei loro diritti culturali e furono costretti ad emigrare in Europa occidentale. La guerra del Nagorno-Karabakh tra Armeni e Azeri ha provocato la distruzione di molti insediamenti curdi e deportazioni in massa.
I Curdi, questione turca interna
E veniamo al presente. La presenza dei Curdi in Turchia è oggetto di valutazioni statistiche divergenti: 14 milioni secondo alcune fonti turche, 25 milioni secondo fonti curde. In Siria i Curdi sono il 5% della popolazione, concentrati prevalentemente nel nord e nel nord-est, ma anche ad Aleppo e a Damasco.
Il PKK – Partito dei Lavoratori del Kurdistan – è nato come organizzazione nazionalista, con strutture militari, di ispirazione marxista-leninista, collegata a partiti analoghi in Iraq e in Iran, con lo scopo di fondare uno stato indipendente nella regione storico-linguistica del Kurdistan, a cavallo tra Turchia, Iraq, Iran, Siria.
I Curdi rappresentano per la Turchia una questione nazionale interna molto pesante. Perché , oltre ad eleggere dal 1990 loro rappresentanti nel Parlamento turco, hanno praticato dal 1980 al 2013 forme di guerriglia, fatta prevalentemente di attentati contro le forze dell’ordine e dell’esercito turco. Il 14 luglio del 2011 iguerriglieri del PKK hanno ucciso 13 soldati nel sud-est della Turchia, ferendone altri sette. Le forze armate turche hanno reagito uccidendo almeno sette membri del PKK. Guerriglia e contro-guerriglia hanno prodotto circa quarantamila morti negli ultimi decenni.
A partire dal 1999, Abdullah Öçalan, leader curdo del PKK, tuttora in carcere – al quale D’Alema, d’accordo con gli Usa e con i Turchi, si rifiutò nel 1998 di concedere asilo politico in Italia – ha abbandonato l’originario marxismo-leninismo per adottare il confederalismo democratico, ispirato dalla lettura delle opere di Murray Bookchin, ebreo russo-americano, prima comunista poi anarchico. Il confederalismo democratico pone l’accento sul libertarismo e sul municipalismo democratico, sull’ecologia sociale, sui diritti delle donne. Si rivolge a tutti i popoli dell’area, non solo ai Curdi, nella prospettiva di un nuovo assetto istituzionale, non necessariamente destinato ad uno sbocco statal-nazionale.
Nel marzo del 2013 Öçalan ha annunciato il “cessate il fuoco” ed il ritiro dei guerriglieri del PKK dal territorio turco, dando il via alle trattative di pace con la Turchia. In questi ultimi anni il PKK sta tentando di realizzare, nella situazione di Rojava, Kobanê e in tutto il Kurdistan, che ha controllato in lotta sanguinosa contro l’ISIS, la propria ideologia comunista libertaria sotto forma di un “confederalismo democratico”.
Tuttavia, nel 2015 il PKK ha dichiarato la tregua finita, dopo giorni di bombardamenti da parte del governo turco.
I Curdi, questione geopolitica. L’impotenza dell’Europa
La questione curda è diventata per i Turchi, nel bel mezzo della crisi siriana, una questione geopolitica. Erdogan si propone di risolvere definitivamente la faccenda curda, utilizzando gli spazi che l’anarchia globale ha inopinatamente aperto ai suoi progetti di potenza in Medioriente. Dove non comandano più né Inglesi né Francesi, dal quale gli Usa si stanno ritirando – il processo era già incominciato lentamente con Obama, si è accelerato con Trump – dove i Russi difendono le loro enclaves militari in Siria, dove l’Iran ha disegnato da tempo la mezzaluna sciita, che parte da Teheran, passa per l’Iraq e la Siria, arriva fino in Libano, ai confini con Israele. Il Medioriente è una polveriera, soprattutto da quando il duumvirato mondiale è saltato dopo il 1989.
Nell’epoca dei nazionalismi – sovraccaricati ideologicamente come sovranismi – e della globalizzazione, i piccoli Paesi – europei compresi – sono destinati a fare da comparse e, talora, da vittime. E’ questo il caso, oggi, dei Curdi e dei Siriani. L’effetto di questo disordine sono i massacri e le migrazioni, le crisi umanitarie.
Se questo è lo stato del mondo, a qualche migliaio di chilometri da noi, che cosa possiamo fare, ciascuno di noi? Sì, possiamo protestare sui social e nelle piazze, ora contro Erdogan, ora contro Trump, ora contro Putin. La storia è piena delle proteste di anime belle. Protestiamo, perché è necessario, se non vogliamo vergognarci del nostro silenzio. Ma dovremmo anche mobilitarci in tutti i Paesi europei contro il silenzio e l’impotenza dell’Unione europea.
I sovranismi sono pericolosi, sia quando sono potenti sia quando sono impotenti. Perché, allora, prevale la legge del più forte. Le mosse della Germania verso Erdogan sono altrettanto eticamente censurabili delle giustificazioni demenziali di Trump. Senza una politica estera comune e senza un esercito comune, il nostro europeismo è solo un retorico flatus vocis.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.