LibertàEguale

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di Antonio Preiti

 

La rivolta verso l’élite è il fattore più potente, trascinante, emotivo del populismo, più forte ancora della frustrazione per il blocco della mobilità sociale, descritto nel precedente “memo”. Allora vale la pena di capire di più: perché è spuntata così all’improvviso? Da dove nasce? Perché travolge la razionalità che richiederebbe, naturalmente, che chi più sa, abbia più responsabilità? Non serve e non basta continuare a dire che i “populisti sono ignoranti”, perché è proprio quella la ragione per cui hanno il potere, perché non sono élite!

 

Quelli che fanno sport e leggono i giornali 

Da dove nasce allora la ribellione? Prima qualche dato di scenario. Prendiamo una delle indagini più profonde (e meno citate) con cui l’ISTAT misura la vita quotidiana degli italiani e, in qualche modo, i nostri sentimenti. Sarebbero infiniti i numeri da citare, ma vediamone qualcuno: in Italia una minoranza va regolarmente nei musei, al teatro e anche al cinema. E fin qui nessuna novità. Vediamo che chi pratica sport e va in palestra è sempre una minoranza (20 %). Vediamo che solo il 21 % delle persone ha fiducia negli altri e vediamo che fa volontariato il 17,7 %; che legge regolarmente i giornali il 15 %.

Vediamo che solo il 22,7 % è convinto che la propria situazione migliorerà nei prossimi cinque anni e, richiesti di dare un voto complessivo alla propria vita, quelli che si attribuiscono un voto elevato rappresentano l’11,2 %. Persino le relazioni umane viaggiano su queste percentuali, perché solo il 24,1 % è felice delle proprie relazioni con gli amici, e meno male che la famiglia sta leggermente sopra, perché da soddisfazione al 34,0 %.

È quasi normale che per ognuno di questi comportamenti e situazioni non ci sia necessariamente la maggioranza (la modernità è un grande patto di minoranze), ma la scoperta, per chi mette insieme i dati, li incrocia e li raggruppa (cluster analysis), è che si tratta sempre delle stesse persone!

Insomma, il gruppo che va in palestra è lo stesso gruppo che legge i giornali; il gruppo che legge i giornali è anche il gruppo che ha un giudizio migliore sulla propria vita (i giornalisti su questo dovrebbero farci una campagna promozionale, puntando sull’ipotesi del nesso causale); e quelli che hanno il miglior giudizio sulla propria vita, sono gli stessi che vanno spesso al cinema e via con le connessioni che si autoalimentano.

 

La classe colta delle grandi città

Il fenomeno non è solo italiano, perché, con ancora maggiore nitidezza e intensità, si registra anche negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia. In questi paesi si è affermata una classe sociale che si distingue nettamente dal resto della popolazione: è agiata, colta, vive nelle grandi città, tendenzialmente è liberal e progressista. Ha un set di consumi, comportamenti, valori che danno forma a un’identità sociale – potremmo dire – di individualismo universalista. È un’identità fondata sulla “cognitive ability”, cioè sulle capacità intellettuali. Cioè il mondo sembra dividersi, al di là dei redditi percepiti, tra chi vive contando sulle sue doti intellettuali, grandi o modeste che siano, e chi vive su altre abilità.

Non è (solo) battaglia sui redditi o sullo status sociale, perché il primo e il secondo gruppo tendenzialmente hanno valori di riferimento diversi e opposti; stili di vita diversi e opposti e, una concezione della vita a tratti diversa e opposta.

Se vogliamo ancora scavare, troviamo che il primo gruppo ha nuove sorgenti di senso, come la tecnologia (“la scienza legittima ogni cosa”); la società di mercato (“la competizione è fra individui e si basa sul merito”); un relativismo etico e culturale (“ogni sistema di credenze ha le sue ragioni”); il cosmopolitismo (“ogni luogo è equivalente”). Negli anni recenti questo gruppo sociale ha rapidamente conquistato l’egemonia, con il completo dominio sui media e ha reso “unappealing” ogni forma di cultura e valori tradizionali.

 

Le istituzioni al crepuscolo

Destino opposto perciò per l’altro gruppo, perché tutte le grandi istituzioni che offrivano significato alla vita sono in pieno crepuscolo. La sorgente religiosa non è più considerata come assoluta e tende a essere caratteristica di una minoranza, non il sentire comune della società; la famiglia è contestata come istituzione ed è sotto pressione come esperienza di vita; la scuola non è più la scommessa per il proprio futuro; le grandi industrie non sono più un mito; l’esercito, che ha rappresentato l’educazione collettiva per generazioni, è scomparso dalla scena; molti lavori prima intesi come preziosi, come l’insegnamento, sono declinanti.

Insomma, tutto un insieme di valori di riferimento è scomparso o declinante. Questi pilastri ampiamente lesionati hanno dominato la società italiana (e occidentale) da secoli e hanno permesso negli ultimi quarant’anni una crescita eccezionale del nostro paese.

Lo smottamento non è però solo valoriale, concettuale, astratto, perché oggi è difficile trovare un lavoro dignitoso per chi non abbia le “cognitive ability” prima citate. In passato un operaio appena assunto poteva contare su uno stipendio che gli permetteva una immediata promozione sociale (mutuo, figli all’università, ecc.). Oggi con abilità non intellettuali (e neppure con quelle, talvolta), è quasi impossibile ottenere, almeno nelle grandi città, qualcosa che lontanamente assomigli a quel “privilegio”.

 

Una rabbia esistenziale e identitaria

Però la rabbia maggiore è esistenziale, identitaria, perché la retorica universalistica dell’élite agli occhi degli esclusi appare una truffa. Sembrano dire: parlate di valori universali, di tolleranza totale, di primato della cultura, ma avete in mente solo i vostri interessi di ceto, come gli altri, peggio degli altri. Piccola digressione sul tema: in effetti la cultura, o la classe intellettuale, sembra aver trasformato il contenuto del proprio lavoro in qualcosa di molto diverso dal passato.

La cultura, da quando mondo è mondo, è sempre servita per la crescita morale, personale, sociale di tutta la collettività. Si rappresentava il teatro in pubblico proprio per questa ragione. Si imparava a memoria la Divina Commedia per le stesse ragioni. Si è creata l’istituzione scolastica proprio per questo. La cultura, per come abbiamo imparato, arriva sempre dal margine della società e sconvolge l’esistente (o prova a farlo). Fiumi di retorica su artisti morti in povertà e glorificati post-mortem; su poeti torturati dalla vita e poi affrancati dalle loro rime; pensatori ferocemente contestati prima di diventare senso comune.

Oggi la cultura sembra più uno status sociale, una promozione sociale, un riconoscersi nella tribù, più che non un’attività di promozione del genere umano. Su questa trasformazione ha detto tutto Roberto Cotroneo nel suo “Niente di Personale”. Ma torniamo alle radici della rabbia anti-élite.

La rabbia non è neppure economica, perché il secondo gruppo (come li possiamo chiamare? Tradizionalisti? Non è esattamente così. Esclusi? Non propriamente, perché sono più dentro la società degli altri. Vandeani? Proprio no.

 

Universalismo vs sovranismo

David Goodhart li chiama “somewheres”, persone radicate nel loro luogo e nella loro storia, in contrapposizione agli “anywheres”, che vivono bene dovunque, forti delle loro abilità intellettuali, gruppo che si sente denigrato dal primo.

Gli “universalisti” infatti sono propensi ad accettare qualunque politica di gender, qualunque filosofia orientaleggiante, qualunque tecnica di self improvement, ma non sopportano chi crede in Padre Pio. Allora la risposta diventa: siete liberal, ma non tollerate nessuno stile di vita diverso dal vostro; siete tolleranti con ogni cultura, tranne che la nostra tradizionale cultura; siete per la pari dignità di ogni essere umano, ma disprezzate chi sceglie di vivere la propria vita secondo la propria visione del mondo. Insomma, contestano il multiculturalismo asimmetrico, molto aperto verso ciò che è lontano, molto chiuso verso ciò che è vicino.

In questa visione delle cose, l’universalismo appare come l’ideologia di un ceto sociale, non un’istanza che abbia valore per tutti, e il sovranismo un istinto di difesa del proprio modo di vivere, piuttosto che una concezione ideologica.

È sbagliato riportare tutto sull’asse tradizionale destra/sinistra, perché è proprio l’asse che è cambiato. Destra e sinistra sono il frutto della contrapposizione tra classi sociali, mentre il nuovo asse identitario va da identità universale a identità locale, con tutti i significati che abbiamo collegato a ciascuno dei due termini. Non è un conflitto economico, è un conflitto culturale, di concezioni della vita, perciò molto più profondo.

Questo dualismo, almeno se riportato nei termini estremi e irrinunciabili di ciascuna delle due parti, appare oggi insanabile, e potrebbe connotare di sé gli anni a venire. Il mondo progressista è come se avesse perduto la legittimazione da cui è nato, ma i “somewheres” non sono mostri.

Bisogna ricomporre il senso della propria missione nel mondo nuovo. E a questo è dedicato il prossimo “memo”, perché c’è (forse) una maggioranza inespressa del Paese la cui rappresentazione (politica) non si trova ancora.

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