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Dal codice di Camaldoli alla Costituzione: conferme, contraddizioni, sviluppi

Stefano Ceccanti mercoledì 26 Luglio 2023
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di Stefano Ceccanti

 

Il Codice di Camaldoli, elaborato negli stessi giorni della caduta di Mussolini va apprezzato per il contributo dato soprattutto ai principali articoli della successiva Costituzione economica, ed in particolare per aver segnato un punto di rottura rispetto a posizioni statico-corporative, di protezionismo autarchico, codificando diritti e doveri di un moderno Stato sociale: la dignità del lavoro, i limiti alla proprietà privata, il giusto salario, i sussidi di disoccupazione, i diritti pensionistici, la tutela della salute del lavoratore, l’importanza dei sindacati, il diritto alla casa, l’estensione dell’istruzione alle classi più deboli e più in generale il concetto ampio di bene comune, prima identificato soprattutto col ruolo della Chiesa per la salvezza delle anime.

Il passaggio più rilevante lo ha sottolineato Paolo Emilio Taviani:l Codice segna una rottura netta col corporativismo perché gli Autori si erano resi conto che esso nel periodo contemporaneo era del tutto inseparabile da regimi autoritari ormai rigettati.

Non possono però essere taciuti due limiti, ossia un’omissione e un ritardo culturale.

L’omissione consiste nella totale mancanza di riferimenti ai partiti e al loro pluralismo nonché agli assetti istituzionali Ovviamente essa non era affatto casuale. C’era ancora, come sappiamo bene dalle puntuali ricostruzioni di Scoppola, un dilemma tra la posizione sostenuta dagli ambienti più conservatori a partire dal cardinale Tardini, che intendevano favorire un pluralismo politico convinti che questo avrebbe pesato a favore della destra, e i sostenitori di un’unità politica necessitata dal probabile scontro internazionale Usa-Urss con i suoi riflessi interni, che de Gasperi e Montini intravvedevano da allora.

Il ritardo culturale consiste nell’uso tradizionalistico del diritto naturale, nella visione della Chiesa cattolica come ‘societas perfecta’ in grado di comprendere e interpretare in modo autosufficiente non solo la Rivelazione divina, ma anche una legge naturale intesa in modo statico e astorico: ritroviamo tra l’altro la pretesa di costituzionalizzare l’indissolubilità e il carattere gerarchico del rapporto marito-moglie nel matrimonio, la distinzione tra figli legittimi e illegittimi col rifiuto di equipararne i diritti, il rifiuto della coeducazione nel sistema scolastico per la sua ‘uguaglianza livellatrice’, le scuole riservate alle sole donne per la loro funzione familiare, la proibizione della propaganda contraccettiva, le sanzioni penali per qualsiasi forma di aborto anche terapeutico, il rifiuto della libertà religiosa con la sola ammissione della tolleranza religiosa sia pure aggettivata come “schietta”.

Analoga valutazione, per comprendere bene il contesto, va fatta per i lavori della Settimana sociale del 1945

Le aperture sociali del codice di Camaldoli sono riconfermate da Amintore Fanfani, con toni positivi sulle possibilità di cambiamento a cui anche i cristiani devono concorrere utilizzando nuovi “mezzi adeguati” che corrispondendo a un “diffuso stato d’animo” per conseguire “la fine della miseria della fine, dell’incultura del privilegio”. Tuttavia, fuori da queste aperture sociali, il panorama è anche qui di chiusura sul proprio paradigma di diritto naturale, modellato per la famiglia su schemi rigorosamente patriarcali un’impostazione che non comporta una piena accettazione delle libertà specie in materia religiosa e di coscienza, ma che al massimo può ammettere “una prudente tolleranza”.

L’unico elemento distonico è indubbiamente quello dell’intervento del Presidente del Consiglio De Gasperi: “Avvicinarsi a questa assise dell’Azione Cattolica è come eseguire una grande ascensione montana. Ci si trova in un’atmosfera ossigenata..Non sempre quando si scende  dall’alta montagna è possibile mantenere la stessa atmosfera ossigenata e direi non sempre la tessa prospettiva può essere attuata quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una terza via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione”.

Il libro di Giovanni Sale “Il Vaticano e la Costituzione” ci ha spiegato bene le differenze interne. Alla fine la Santa Sede è ingabbiata nel sistema di mediazioni di de Gasperi, che, pur senza attaccarla frontalmente, elude l’impostazione confessionalistica della Santa Sede,  che anticipa di fatto lo slittamento della dottrina della Chiesa del Concilio Vaticano II dalla mera tolleranza alla libertà religiosa relativizzando il ruolo dello Stato e rispettando l’immunità dalla coercizione, che afferma l’autonoma capacità decisionale dei laici cattolici in politica e che alla fine, tra le varie impostazioni possibili della Costituzione economica, declina lo Stato intervista non in termini statalistici ma in chiave di sussidiarietà, grazie alle scelte fatte di apertura europea ed atlantica.

Chiusa la Costituzione in termini formali con l’entrata in vigore l’1 gennaio 1948, restava infatti aperta la questione della collocazione internazionale del Paese con le elezioni del 18 aprile. Da essa dipendeva anche la concreta attuazione della Costituzione economica. Nella ricostruzione di Taviani lo Stato interventista non era statalista perché esso si collegava alle economie e alle società aperte dell’area occidentale, mentre nell’impostazione dossettiana il Paese doveva abbracciare un’opzione neutralista collegata a un obiettivo ben più elevato di rifacimento dall’alto della società civile, come dichiarato poi nel discorso ai Giuristi Cattolici del 1951, difficilmente conciliabile con una democrazia liberale perché, come rilevato da Scoppola finiva per riproporre un sostanziale monopolio del bene comune da parte dello stato, “non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società”.

Queste differenze sono importanti perché in anni recenti gli articoli della Costituzione economica sono stati superficialmente accusati di statalismo, dimenticando due aspetti chiave. Il primo è che gli autori erano anche contemporaneamente sostenitori del progetto europeo, che portava con sé la lotta a chiusure corporative: ruolo dello Stato e limiti alla sovranità verso l’alto si tenevano insieme; Il secondo è la valorizzazione della sussidiarietà: come ricordava Vittorio Bachelet in sintonia con Taviani l’articolo 41 della Costituzione ha preferito la parola ‘programmi’ a quella di ‘piani’ per indicare una programmazione per incentivi, per premi e punizioni, più che attraverso una gestione diretta statale generalizzata.

Le due concezioni diversissime di Stato forte, da destra quella di Ottaviani, neutralista e confessionalista per vicinanza al franchismo, a forme clerical-autoritarie, e da sinistra quella di Dossetti per lasciare più margini all’interventismo statale, convergevano poi sull’opzione neutralista, ma questa dopo i risultati del 18 aprile e l’adesione alla Nato dell’anno seguente veniva battuta da de Gasperi, legando lo Stato sociale nazionale allo sviluppo comune delle democrazie consolidate.

Lo sviluppo delle idee di Camaldoli fu quindi concepito e realizzato lasciando cadere le foglie secche dell’intransigentismo identitario, in una chiave laica, condivisibile (e poi effettivamente condivisa) da tutto il Paese. Per questo il Codice non si presta a operazioni nostalgiche, di chiusure minoritarie tra soli cattolici, ma è un esempio, come diremmo oggi, di vocazione maggioritaria. 

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