di Amedeo Lepore
La svolta dell’economia verde è iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, in singolare coincidenza con l’avvento delle crisi petrolifere e il declino del modello fordista. Le prime rivoluzioni industriali dell’Ottocento non avevano contemplato il problema ambientale come parametro dirimente per lo sviluppo industriale, concentrando la loro spinta sull’immissione di lavoro e macchine nelle fabbriche, allo scopo di ottenere un aumento di produttività indispensabile per uscire dalla trappola malthusiana della popolazione.
All’inizio del Novecento, il premio Nobel per la chimica Fredrick Soddy, convinto che le enormi potenzialità della scienza potessero concretizzarsi solo con una riorganizzazione sistemica, aveva proposto, differenziandosi dalle teorie neoclassiche, una visione dell’economia fondata sui principi della termodinamica per migliorare la qualità della vita umana. Infatti, paragonando il funzionamento dell’economia a una macchina, affermava l’impossibilità di un “moto perpetuo” e, quindi, di una generazione incessante di ricchezza.
Solo con gli economisti Nicholas Georgescu-Roegen e Herman Daly si cominciò a considerare, dopo il 1971, l’economia come un “sistema vivente”, simile a un organismo biologico, che ricava dall’ambiente le risorse (materie prime ed energia) per la sua esistenza e riproduzione, dando origine al concetto di sostenibilità. La green economy (o economia ecologica) è sorta come uno schema teorico legato al tema dello sviluppo, che lega l’incremento del Pil e la crescita all’impatto ambientale di un determinato modello di produzione. Il rapporto Stern del 2006 ha inserito i mutamenti climatici e le loro conseguenze all’interno del contesto economico e finanziario, fissando un limite per l’emissione dei gas serra attraverso obblighi e incentivi (cap and trade).
Jeremy Rifkin, nell’ultimo decennio, ha concepito una rivoluzione industriale basata sulla valorizzazione dell’ecosistema e sulla diffusione delle innovazioni digitali, come risposta all’esigenza di una dimensione ambientale dell’economia. Dalle origini dell’economia verde si sono fatti notevoli passi in avanti, passando dalla semplice constatazione delle ripercussioni negative delle variazioni entropiche sull’assetto ecologico a una concezione circolare dell’economia, che, oltre a mitigare gli effetti nocivi dell’industria e del consumo sulla natura, si pone l’obiettivo del reimpiego dei prodotti e degli scarti, estendendone il ciclo di vita e generando nuovo valore.
Questo paradigma inedito è ancora in piena evoluzione e può essere lo strumento più efficace per la ripresa economica dopo la pandemia. La nuova frontiera della bioeconomia è rappresentata da un prototipo in grado di puntare soprattutto sulle tecnologie e sui materiali più avanzati, per massimizzare qualità e risultati della produzione, minimizzando costi, residui ed emissioni. Il modello di economia a cui può giungere questo straordinario processo di trasformazione è imperniato su un’innovazione di sistema ad alto contenuto di produttività, capace di promuovere nuovi processi produttivi e nuovi prodotti modulari, longevi, riparabili, riutilizzabili e biodegradabili, in una prospettiva di assenza di rifiuti e di inquinamento.
La connessione tra scienza, agricoltura e industria può alimentare un futuro di questo tipo, senza rifugiarsi in uno scomodo scenario di decrescita. Le nuove catene del valore che scaturiranno da questo cambiamento epocale saranno connesse ad altre forme di globalizzazione. Intanto, però, bisogna sfruttare al meglio gli strumenti esistenti.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede per la missione dedicata alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica oltre 59 miliardi di investimenti, riservando alla bioeconomia circolare interventi significativi. Nel Piano sono declinati gli obiettivi globali ed europei al 2030 e al 2050 per la decarbonizzazione e la diffusione delle energie rinnovabili. Inoltre, è prevista la realizzazione di impianti per la raccolta differenziata, il trattamento e il riciclo dei rifiuti, la formazione di catene di approvvigionamento verdi e il potenziamento di filiere produttive strategiche della transizione (agroalimentare, tessile, elettronica, carta, cartone e plastica).
Lo scopo generale, anche in questo campo, è quello di un balzo di competitività del Paese e di una riduzione del divario tra le regioni italiane. Si tratta di un buon inizio, che richiede il dispiegamento delle riforme collegate a questo passaggio e, soprattutto, una gestione efficiente e unitaria, all’altezza del green new deal europeo.
Pubblicato su Il Mattino il 5 maggio 2021
È stato assessore alle Attività produttive della Regione Campania. Professore di Storia Economica presso il Dipartimento di Economia della Seconda Università di Napoli e docente presso il Dipartimento di Impresa e Management della Luiss – “Guido Carli” di Roma. È componente del Consiglio di Amministrazione e del Comitato di Presidenza della SVIMEZ. Ha pubblicato volumi e saggi, in Italia e all’estero e di recente: La Cassa per il Mezzogiorno e la Banca Mondiale: un modello per lo sviluppo economico italiano, Rubbettino; Mercado y empresa en Europa,Universidad de Cadiz