di Sergio Fabbrini*
Il sovranismo non ha teorie, né visioni. La sua prerogativa è la critica della Ue senza la proposta di un’unione alternativa
Le riflessioni di Giorgio si distendono tra due crisi esistenziali, quella finanziaria esplosa agli inizi del decennio scorso e quella pandemica degli inizi di questo decennio. Dopo tutto, quelle due crisi, e le loro implicazioni, hanno cambiato i termini divisori della politica europea, avviandola verso esiti che ancora oggi non si conoscono.
La divisione tra europeismo e nazionalismo
La politica europea è stata a lungo caratterizzata dalla divisione tra europeismo e nazionalismo. Se l’europeismo è consistito nella difesa delle virtù dell’interdipendenza tra gli stati europei, il nazionalismo si è caratterizzato per denunciare i vizi di quest’ultima. Tale divisione ha raggiunto il suo apice con il referendum britannico del 2016 che ha condotto all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (Ue). Quel referendum ha chiuso un ciclo politico durato mezzo secolo. Nell’immediato, Brexit ha rappresentato il trionfo del nazionalismo indipendentista sull’interdipendenza europea e la sua forma istituzionalizzata. Senza la cattiva gestione della crisi finanziaria esplosa agli inizi del decennio, probabilmente non ci sarebbe stata la reazione populista che ha alimentato il senso di sfiducia nei confronti dell’Ue. Tuttavia, le conseguenze (economiche, sociali, politiche) di Brexit sono risultate così drammatiche per il Regno Unito da trasformare Brexit in una sconfitta di lungo periodo del nazionalismo indipendentista. Di qui lo sviluppo, nel periodo post-2016, del tentativo di reinterpretare il nazionalismo nei termini di un sovranismo che dichiara di essere compatibile con il processo di integrazione.
Dopo Brexit, seppure gradualmente, la retorica nazionalista ha messo in sordina l’indipendentismo, ridefinendo i suoi obiettivi in direzione di una critica dall’interno del processo di integrazione. Quella retorica sembra aver riconosciuto (più implicitamente che esplicitamente) che nessuno stato membro dell’Ue, compresi i più grandi, è nelle condizioni (materiali e culturali) per poter gestire le conseguenze (attese e soprattutto inattese) di un’uscita dall’Ue. Brexit ha rappresentato il canto del cigno del nazionalismo indipendentista, che ha perso proprio quando pensava di aver vinto. Invece di essere un esempio da seguire, quel nazionalismo indipendentista è risultato piuttosto essere un esempio da evitare (…).
Dal nazionalismo al sovranismo
Per necessità, il nazionalismo ha dovuto reinventarsi, dovendo riconoscere che l’interdipendenza genera vincoli ma fornisce anche inaspettate opportunità (economiche e di sicurezza). Così è avvenuto, infatti, con la risposta dell’Ue alla crisi pandemica e con l’approvazione tra luglio e dicembre 2020 del programma di Next Generation EU (NG-EU). Quest’ultimo, costituito di prestiti e sovvenzioni per circa 750 miliardi di euro, si è dimostrato indispensabile per aiutare gli stati membri dell’Ue ad affrontare la pandemia e ad avviare programmi di ripresa post-pandemica finalizzati a rendere le loro economie e società più resilienti alle trasformazioni future. NG-EU ha avviato anche una ridefinizione del ruolo delle istituzioni sovranazionali, a cominciare dalla Commissione europea, messa nelle condizioni di poter acquisire debito europeo per finanziare i vari progetti di intervento. Il nazionalismo era stato alimentato dalle politiche di austerità adottate per affrontare la crisi finanziaria degli inizi del decennio scorso, in quanto quelle politiche avevano peggiorato le condizioni di vita di componenti diffuse dei paesi debitori. Di conseguenza, il ricorso a debito europeo per finanziare la riposta alla crisi pandemica ha finito per mettere in difficoltà il nazionalismo, impossibilitato a usare l’Ue per coprire le proprie difficoltà. La formazione del governo Draghi costituisce la testimonianza delle incongruenze dei sovranisti, la cui principale forza politica è addirittura entrata nella maggioranza parlamentare di un governo tra i più europeisti della storia italiana postbellica (…)
La debolezza del sovranismo
In diversi suoi contributi, Giorgio mostra di essere consapevole che il sovranismo non dispone di una teoria e tanto meno di una visione. Il suo connotato principale è la critica dell’Ue piuttosto che la proposta di un’unione alternativa. È a disagio con l’interdipendenza, anche se non sa come uscire da essa. Rifiuta il sovranazionalismo in nome di una generica «unione dei popoli europei», senza mai specificare le caratteristiche istituzionali che quest’ultima dovrebbe assumere. Rifiuta le regolamentazioni e le istituzioni sovranazionali ma, allo stesso tempo, non può rinunciare ai vantaggi del mercato unico. Il mercato unico è la condizione per accelerare lo sviluppo dei paesi dell’Est, ma anche per soddisfare gli interessi economici dei ceti sociali che i sovranisti dell’Ovest dicono di voler rappresentare. Senza una Corte sovranazionale, legittimata a risolvere le dispute tra attori economici nazionali così favorendo l’integrazione negativa, non potrebbe funzionare un mercato sovranazionale. Senza una Commissione europea, legittimata ad intervenire attraverso direttive e regolamenti per promuovere di conseguenza l’integrazione positiva, il mercato unico si ridurrebbe a poco più di un’unione doganale. I sovranisti dell’Ovest e dell’Est non sono riusciti ancora a risolvere tali incongruenze. I sovranisti hanno rafforzato la governance intergovernativa dell’Ue a discapito di quella sovranazionale, hanno esaltato i parlamenti nazionali a discapito di quello sovranazionale. Usando la teoria del pluralismo costituzionale, entrambi i sovranismi hanno avanzato un’interpretazione dell’Ue come un’organizzazione economica regionale, una sorta di organizzazione internazionale, al cui interno possono coesistere regimi politici e ordini legali diversi. Criticano il sovranazionalismo perché hanno una repulsione (e in alcuni casi, un’incomprensione) della democrazia liberale e della rule of law. (…)
La revisione dell’europeismo
La sfida sovranista e il nuovo contesto generato dalla crisi pandemica obbligano l’europeismo a rivedere i termini della propria identità politica. Naturalmente, l’europeismo deve difendere le ragioni della sua affermazione storica.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’europeismo ha favorito lo sviluppo dell’interdipendenza che ha messo in sicurezza sia il mercato sovranazionale (formatosi con i Trattati di Roma del 1957) che le democrazie liberali e i loro sistemi di protezione sociale (costruite intorno a patti costituzionali nazionali). L’Europa integrata, promossa dagli europeisti, ha garantito il più lungo periodo storico, nel nostro continente, di pacificazione tra stati, di diffusione dell’ordine giuridico liberale, di costruzione del più grande mercato integrato al mondo. Certamente, l’Europa che emerge da più di 70 anni di integrazione manifesta (ancora) ingiustizie sociali, economiche e di genere, tuttavia è l’Europa meno ingiusta e meno povera e più libera e più democratica che abbiamo mai avuto. Se milioni di persone anelano a venire in Europa è anche perché essa è divenuta un luogo di benessere economico (seppure non uniforme) e di rispetto dei diritti umani (seppure non sempre garantito). Nonostante la persistenza dell’ideologia nazionalista, questi risultati non potevano essere conseguiti dallo stato nazionale, nell’esercizio della sua sovranità. Di fronte alla cecità nazionalista, è bene non abbassare la voce.
Se l’europeismo ha onorato la sua funzione storica, nello stesso tempo deve riconoscere che la storia ha generato nuove sfide. L’interdipendenza va governata in modo adeguato, le identità nazionali vanno rielaborate, le relazioni tra gli stati e l’Unione vanno ridisegnate. L’europeismo deve perseguire una visione pluralista dei rapporti tra stati e individui all’interno del processo d’integrazione, un pluralismo di cui Giorgio era consapevole. I sovranisti sono culturalmente antipluralisti, per loro la sovranità può esistere solamente all’interno dello stato nazionale. (…)
Conclusione
È ipotizzabile che una nuova divisione politica si stia affermando in Europa. Brexit ha mostrato che uscire dall’Ue è drammaticamente doloroso, anche per un paese (come il Regno Unito) che continua a pensarsi come una potenza globale (non avendo mai elaborato il lutto del suo ridimensionamento post-imperiale). Il sovranismo è il tentativo di dare sostanza politica ad un nazionalismo che ha dovuto accettare (per necessità) la realtà imprescindibile dell’interdipendenza. Di qui, il tentativo di adattare il nazionalismo al processo di integrazione, un tentativo (nondimeno) quanto mai contraddittorio. Nello stesso tempo, l’europeismo non può limitarsi a rivendicare i suoi successi storici, riproponendo l’ambiguità processuale della sua visione. La sovranità europea è entrata finalmente nell’agenda europeista, spetta all’europeismo definirla in modo originale e pluralista.
*Pubblichiamo alcuni stralci del contributo di Sergio Fabbrini al volume “La forza mite del riformismo” edito da Il Mulino, una raccolta di scritti di Giorgio Armillei. Da il Quotidiano del Sud, 17 maggio 2022
Professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la LUISS Guido Carli, dove ha fondato e diretto la School of Government dal 2010 al 2018. E’ stato Direttore della School of International Studies dell’Università degli Studi Trento dal 2006 al 2009. E’ stato Direttore della “Rivista Italiana di Scienza Politica” dal 2004 al 2009, il primo direttore dopo Giovanni Sartori che l’ha fondata nel 1971. E’ Recurrent Visiting Professor di Comparative and International Politics presso la University of California di Berkeley (USA). Tra gli altri, è stato Jemolo Fellow presso il Nuffield College di Oxford e Jean Monnet Chair Professor presso il Robert Schuman Center for Advanced Studies, European University Institute, Fiesole, Firenze. Ha insegnato in diverse università degli Stati Uniti, della Cina, del Giappone, dell’America Latina e dell’Europa. E’ stato Fulbright Professor presso la Harvard University (USA). Ha diretto la collana editoriale su “Le istituzioni delle democrazie contemporanee” per l’Editore Laterza. Ha vinto diversi premi scientifici internazionali e nazionali. Ha pubblicato sedici volumi, è co-autore di un altro volume ed ha curato altri quindici volumi, oltre a quasi trecento saggi scientifici in sette lingue, nei campi della politica comparata ed europea, della politica americana, della politica italiana, della teoria politica e della political economy. E’ editorialista del quotidiano Il Sole 24 Ore. Per i suoi editoriali, ha ricevuto il Premio 2017 Altieri Spinelli che gli è stato consegnato a Ventotene.