di Giovanni Cominelli
I miliardi di Euro che arriveranno dall’Europa non sono un regalo. Solo l’infantil-assistenzialismo autarchico di Salvini può lamentarsi della banale di verità che “nulla è gratis”. Se l’Europa può essere modicamente generosa, mai gratuita, i mercati non sono un ente di beneficenza. Perciò il capitale lo dovremo restituire e gli interessi li dovremo pagare in due modi: con i soldi e con le riforme. Con il lungo elenco delle quali si cimentano da giorni politici e opinionisti, facendo proposte nel merito di ciascuna.
Il Paese declina sul piano produttivo, economico, sociale, demografico, perché non ha la forza interiore per fare riforme: né quelle economico-sociali né quelle amministrative né quelle politico-istituzionali. Un Paese seriamente impegnato ad affermare la sovranità nazionale incomincerebbe dalle riforme.
La scuola, la cenerentola della nostra economia e dei nostri interessi
Quella del sistema educativo nazionale è sempre citata come la prima o la seconda in ordine di importanza.
Il primo suggerimento che viene proposto è quello di aumentare l’investimento fino ad arrivare al 4,5% della spesa pubblica. Così, per ultima, Chiara Saraceno su Repubblica. Sulle cifre i dati Eurostat sono inesorabili. Il nostro Paese investe il 7,9% della spesa pubblica in educazione, un dato inferiore a quello di tutti gli altri stati membri. Nel 2017 l’Italia ha speso circa 66 miliardi, più o meno l’equivalente degli interessi pagati sul debito pubblico. Siamo gli unici al mondo!
Complessivamente, dopo la crisi del 2007-08, abbiamo investito sempre meno in numeri assoluti. Nel 2009 i miliardi erano 72. Anche il Rapporto Education at a Glance 2019 dell’OCSE conferma che nella classifica degli Stati con le economie più avanzate al mondo l’Italia è ultima per spesa in istruzione in rapporto alla spesa pubblica totale. Nonostante il calo demografico, la spesa è diminuita del 9% tra il 2010 e il 2016, più rapidamente rispetto al calo registrato nel numero di studenti.
Perché l’Italia spende poco e sempre meno in istruzione? Le ragioni sono sempre le stesse da anni: la coperta è sempre più corta, a causa del peso crescente degli interessi su un debito pubblico crescente; i settori sociali più robusti elettoralmente riescono a tirarla dalla propria parte.
E la politica fa quel che le ordinano gli interessi. Destra e sinistra accomunate in questa scelta corporativa. Sulle cause politico-culturali del debito pubblico non torneremo qui per l’ennesima volta. E’ la scelta del declino. Punto a capo.
Tuttavia, la tesi che qui si sostiene è che l’aumento eventuale della spesa per l’istruzione, non preceduta e accompagnata da riforme radicali, non migliorerà affatto le performance del sistema di istruzione. Iniettare soldi freschi nel vecchio circuito inefficiente non porterà lontano. La vicenda del Covid rischia, viceversa, di spingere vieppiù su questa strada: più docenti, più banchi, più aule, più tecnologie et voilà il sistema funzionerà!
Ma, ahinoi, la povertà educativa non nasce principalmente dalla mancanza di soldi, ma dal fatto che il sistema di istruzione non è un sistema educante. Non lo è e non lo può diventare, perché la funzione pubblica di istruzione/educazione è fortemente sovradeterminata dall’Amministrazione statale. In questa strettoia del pubblico ridotto a statale è finita persino la scuola paritaria, che è sì riconosciuta come pubblica, in base alla legge 62 del 10 marzo 2000, ma a condizione che si adegui pressoché totalmente alle modalità di funzionamento e alla cultura diffusa della scuola statale.
Docenti come funzionari qualsiasi dello Stato
L’istituto scolastico è considerato come un ganglio dell’amministrazione statale. Il sapere è partito in discipline e in orari da taylorismo proto-industriale. L’organizzazione quotidiana dell’apprendimento/
Il personale docente e dirigente viene formato, reclutato, gestito, stipendiato con le stesse modalità con le quali lo è quello destinato all’esercizio di una qualsiasi funzione dell’Amministrazione dello Stato. Quando l’amministrazione funziona regolarmente, indice i concorsi per il reclutamento. Tuttavia, nonostante le reiterate lamentele di Sabino Cassese, i concorsi per titoli ed esami non si fanno regolarmente. Ma quand’anche, i concorsi per esami e per titoli per la selezione del personale docente non sono lo strumento adeguato per il reclutamento/assunzione di personale educante.
Il sillabo delle competenze professionali del docente ne stabilisce almeno cinque: il sapere disciplinare, l’abilità didattica, la vocazione educativa nella relazione con i ragazzi, la capacità di collaborazione con i colleghi, la conoscenza del contesto sociale e territoriale, in cui la scuola è inserita. I concorsi accertano, eventualmente, il possesso del sapere disciplinare, per il quale, d’altronde, dovrebbe bastare la laurea o no?! Comunque, nulla possono verificare circa il possesso delle altre quattro competenze-chiave. Né certo può bastare far improvvisare, nel corso dell’esame orale, una lezione-fantasma.
L’altra causa di inadeguatezza dello strumento-concorso è la questione del valore legale dei titoli di studio. Uno dei fondamenti del concorso è il possesso dei titoli legalmente validi di studio. Il dogma del valore legale condiziona l’intero percorso di studi dei ragazzi e dei loro insegnanti. Eppure, ormai troppe ricerche, oltre alla percezione del senso comune, hanno segnalato il gap tra il valore legale e quello reale. L’Amministrazione statale è chiusa nel circolo vizioso del valore legale, che funziona come selettore solo rimanendo all’interno delle professioni statali. Nel mondo dell’economia, delle professioni e dell’educazione il valore legale si rovescia in disvalore reale.
Intanto, il suddetto dogma produce un’ossessione scrupolotica all’interno della didattica: essa finisce per essere più orientata alle verifiche legali, in vista del completamento dei programmi e degli esami, piuttosto che darsi tempo per la certificazione del sapere e della maturità umana effettivamente raggiunti.
Che significa destatalizzare la scuola?
Destatalizzare la scuola non equivale a consegnarla all’anarchia e alle diseguaglianze “naturali” della povertà educativa né, tampoco, a privatizzarla, come va predicando una pelosa propaganda sedicente antiliberista. La funzione istruzione/educazione è una fondamentale funzione pubblica, motore di cittadinanza attiva e di eguali opportunità, ben oltre ciò che offre la fortunosa lotteria della vita.
Che cosa significa esattamente?
a) Il diritto di ciascun bambino che nasce a disporre di una dotazione finanziaria annuale adeguata, che oggi è viceversa la più bassa dei Paesi europei;
b) La definizione pubblica di una tavola nazionale/europea delle competenze-chiave, la cui acquisizione è il fine di ogni scuola; in Italia è già stata stabilita nel 2007;
c) La piena autonomia degli istituti scolastici in ordine all’organizzazione dei tempi di apprendimento/insegnamento sulla base del monte ore annuale, non settimanale, e in ordine alla formazione sul campo e all’assunzione diretta del personale insegnante;
d) Un sistema nazionale/europeo di valutazione esterna degli istituti scolastici, che ne verifichi periodicamente e severamente le capacità di istruzione/educazione.
Se vince la politica corporativa
A queste riforme, già sostanzialmente previste, eccetto l’ultima, nel DPR 275 dell’8 marzo 1999 e nella legge 107/2015 – la cosiddetta Buona scuola – si sono finora ostinatamente opposti l’Amministrazione ministeriale, i sindacati, i partiti di sinistra, il M5S, e i partiti di destra sovranisti. Tutti infelicemente convergenti in una politica corporativa a fini di lucro elettorale immediato. In effetti, ci sono in gioco elettorale circa 800 mila insegnanti, un paio di milioni di alunni delle scuole superiori, parecchi milioni di genitori. Tutti uniti nel lamentare l’inefficienza del sistema educativo nazionale, tutti uniti ne difenderlo così com’é. Tocca alla politica andare oltre l’ottuso orizzonte presente. Next Generation EU lo esige.
(Editoriale per ww.santalessandro.org del 25 luglio 2020)
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.