di Giovanni Cominelli
Genitori che denunciano, insegnanti che picchiano i bambini
Quella degli Istituti scolastici non è un’arena pacifica. Arriva alle orecchie un vociare permanente, una verbigerazione rissosa, a volte delle voci tentano di imporsi sulle altre. A volte qualche genitore ricorre al TAR, per contestare un basso voto di maturità inflitto al proprio pargolo. Recentemente, una madre si è recata a scuola a schiaffeggiare la vice-preside. Intervistata successivamente in TV, ha prodemente dichiarato che non era affatto pentita dell’eroico gesto. La causa: l’insegnante avrebbe “mobbizzato” la figlia. Il che si può anche non escludere, considerato il livello di incompetenza didattico-relazionale di parecchi insegnanti. Resta la sproporzione tra la causa e gli effetti. La cronaca di questi giorni ci notifica che due maestre milanesi sono state interdette dall’incarico, perché portavano i bambini nei bagni per picchiarli, al riparo da occhi indiscreti. Non avevano fatto i conti con le telecamere.
Dalla scuola chiusa ai tentativi – non riusciti – di partecipazione
Fino ai Decreti delegati del 1974 questa arena non esisteva. La scuola era impermeabile, almeno dal punto di vista amministrativo, rispetto alla società che ribolliva fuori dalle sue mura. A parte la presenza degli studenti, che avevano ottenuto quasi subito dopo il ‘68 la cosiddetta “agibilità politica”, cioè il riconoscimento del diritto di tenere assemblee, per quanto riguardava le altre componenti tutto filava liscio, come da sempre. Gli insegnanti si tiravano dietro l’uscio della classe e in cattedra erano padroni totali; i genitori si mettevano pazientemente in fila, una volta alla settimana, per ricevere notizie circa i progressi scolastici dei loro figli.
Dopo l’approvazione dei Decreti delegati gli Istituti scolastici si sono aperti alla partecipazione regolata degli studenti e dei genitori, secondo determinate proporzioni. I movimenti del ’68 hanno violato la turris eburnea della scuola, coinvolgendola a volte disordinatamente nelle dinamiche sociali e persino familiari. L’entusiasmo è stato breve. L’amministrazione si è chiusa riccio, i sindacati del personale hanno contrattato la partecipazione agli organismi di governo della scuola per la parte che rappresentavano.
Ma la luna di miele della partecipazione democratica è durata poco. Gli studenti hanno incominciato a disertare gli organismi elettivi; i genitori, ai quali veniva riconosciuta la Presidenza dei Consigli di Istituto, hanno scoperto che l’organizzazione della didattica non era di loro competenza e, tampoco, i contenuti della medesima. Né, in effetti, lo poteva essere. L’autonomia degli Istituti, lanciata dalla Conferenza nazionale della scuola agli inizi del 1990, Ministro Sergio Mattarella, ha percorso una lunga strada di dibattiti e deliberazioni, passando per il Decreto di Luigi Berlinguer del 1999 fino all’incorporazione del medesimo Decreto nel testo legislativo della Legge 107/2015 – la Buona scuola – ma l’autonomia istituzionale, organizzativa, didattica delle scuole è rimasta impigliata nel centralismo amministrativo ministeriale e nella diffidenza resiliente di insegnanti, sindacati e dirigenti scolastici. I canali della partecipazione alla vita scolastica sono rimasti senz’acqua.
La ragione di fondo è che le decisioni che contano non le prende nessuno, perché la struttura amministrativa impersonale e “irresponsabile” funziona quotidianamente da sola. Le centinaia di decisioni che ogni dirigente è chiamato a prendere quotidianamente sono tutte necessarie e spesso faticose, ma nessuna può avere come oggetto l’essenziale, perché questo è sottratto amministrativamente alla sua competenza. L’essenziale? La struttura della didattica, la partizione degli orari di insegnamento/apprendimento e la parcellizzazione dei saperi-materie, per un verso, e, per l’altro, l’educazione, cioè la trasmissione della civiltà ai nostri figli.
Nuove istanze si sono rovesciate sulla scuola. Il rischio educativo
Basta tutto ciò a spiegare il disagio e lo scontro tra componenti scolastiche o l’indifferenza reciproca o gli episodi-limite, di cui ogni anno scolastico è costellato? Proprio perché i Decreti delegati e i frammenti di autonomia realizzata hanno aperto i varchi della torre ben compatta, nel corso di quattro decenni e più le tre componenti costitutive – alunni, insegnanti, genitori- sono entrate nell’arena su nuove gambe. Il mondo, la società, le culture, gli stili di vita, la famiglia sono cambiati e sulla scuola si sono rovesciate nuove istanze socio-culturali.
Per quanto riguarda i genitori, sono stati modificati fortemente i parametri educativi. I ragazzi del ’68 sono diventati genitori e, ormai, genitori di altri genitori, portandosi dietro una concezione ed una pratica dell’autorità/autorevolezza ben diversa da quella ereditata dalle generazioni del dopoguerra, assai meno autoritaria e assi più libertaria. In questa nuova, il ruolo del soggetto, delle libertà individuali, della creatività si è dilatato enormemente.
Il riconoscimento dei nuovi spazi del soggetto individuale non si è tuttavia accompagnato ad un esercizio rigoroso del ruolo educativo del genitore e dell’adulto. E’ aumentato il “rischio educativo”, connaturato all’incontro tra due libertà e alla dialettica dell’autorità, ma, al contempo, si è registrata una ritirata educativa dei responsabili naturali: i genitori appunto.
Intanto, per non fatali tendenze demografiche, il numero dei ragazzi è diminuito e perciò sono divenuti più preziosi agli occhi della società e dei genitori. Gestire la maggiore libertà dei figli richiede un esercizio più faticoso e complesso dell’autorità. E così è cresciuta una generazione di figli più libera, più precoce, più dotata di mezzi di comunicazione – dai dodici anni il cellulare è di rigore – più esposta e più fragile. Nelle scuole i genitori hanno teso a costituirsi sempre di più come sindacalisti che difendono come tigri i propri figli.
Dal lato degli insegnanti, si è spezzata la catena pedagogica, i cui anelli erano stati forgiati negli anni ‘50/’60. L’espansione del sistema scolastico, successiva alla riforma della Scuola media unificata del 1963, ha dilatato la domanda di docenti, ha accelerato i tempi di ingresso nella professione, ha trasformato gli insegnanti da funzionari del sapere e dell’autorità in una massa di dipendenti statali, senza che le competenze cognitive, didattiche e educative necessarie fossero aggiornate e aumentate.
Se nella vecchia scuola contava assai di più la dimensione cognitiva dell’istruzione, mentre quella educativa restava a carico delle famiglie e delle varie agenzia socio-culturali, oggi la domanda/necessità prevalente è divenuta quella educativa e si è trasferita nella scuola. Eppure non è per nulla cambiato il meccanismo del reclutamento degli insegnanti, ancora e sempre fondato sui concorsi statali e, in loro assenza, sull’esercizio precario della professione. I concorsi, quando sono indetti, accertano a malapena il possesso delle competenze cognitive degli insegnanti futuri, ma nulla circa le loro abilità didattiche e le loro capacità educative. Quanto al reclutamento dei dirigenti, essi vengono attinti esclusivamente dal corpo docente, attraverso concorsi, che accertano il possesso delle molteplici e necessarie competenze amministrative, il cui esercizio basta a riempire un’intera giornata del dirigente. E la capacità di leadership educativa? Inverificata e inverificabile.
Si fugge dalle responsabilità
Così, se passiamo ai raggi X la condizione culturale delle componenti adulte del sistema scolastico oggi – quelle cui spetta per diritto/dovere naturale e professionale l’educazione delle giovani generazioni – il quadro complessivo è quello di una netta fuga dalle responsabilità educative. Ma neppure il quadro delle competenze cognitive dei nostri ragazzi appare brillante, se prendiamo per buone le più recenti statistiche circa la dispersione, l’analfabetismo funzionale, il grado di conoscenza dell’Italiano, della Storia, della Matematica, delle Scienze, in comparazione con i ragazzi dei Paesi dell’OCSE.
Gli episodi che di tanto in tanto rattristano la nostra lettura dei giornali sono la spia occasionale di un malessere profondo del sistema di istruzione ed educazione, di cui le vittima sacrificali sono le nuove generazioni che vengono avanti.
Alla fine, al posto dell’educazione all’arena pubblica e all’etica pubblica, il sistema scolastico fornisce solo una debole “etichetta” burocratica, un fragile galateo per benpensanti, che viene travolto dall’ ”etica” imperante in Facebook.
I tentativi pluridecennali della politica di dotare il sistema di istruzione e educazione di un assetto istituzionale – quello dell’autonomia – all’interno del quale ciascuna componente possa assumersi fruttuosamente le proprie responsabilità educative, sono stati frustrati dalle resistenze corporative del personale e dei suoi sindacati, dall’apparato amministrativo, dai genitori largamente al di sotto delle loro responsabilità, da una politica incapace di progettare una Patria e una Nazione nel disordine del mondo che arriva. Senza educazione non si dà Patria. Giovanni Gentile lo aveva compreso. Dopo, non più.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.
Splendida lettura dei fatti ed appropriata riflessione. Splendido prof. Cominelli!