di Mario Rodriguez
(Rielaborazione dell’intervento svolto all’Assemblea nazionale di Libertà Eguale – Orvieto, 28-29 ottobre 2019)
L’organizzazione è la grande Cenerentola delle nostre riflessioni. E organizzazione significa pensare sia a come si sta nella società sia come si prendono le decisioni. Penso non si sia mai riflettuto abbastanza sul ruolo giocato dalle procedure di decisione nella definizione della cultura, cioè del cemento, di una organizzazione. E questo conta soprattutto in ambito politico dove per cultura (politica, appunto) si è soliti intendere soprattutto qualcosa di valoriale o ideologico.
Il maggior limite del PD…
Credo che questo sia il maggior limite del PD, e, quindi, una delle ragioni di quella che, nelle condizioni date, a me pare la sua crisi difficilmente reversibile. E ciò è particolarmente vero quanto più si pensa che dal PD ci si aspettava una maggiore capacità di interpretare la funzione di un partito politico in maniera laica, pragmatica, concentrata sull’azione di governo piuttosto che sul senso ultimo della storia e dei destini dell’umanità.
Condivido l’impostazione di chi crede che le organizzazioni siano culture, credenze e visioni che legittimano la leadership, e che l’efficacia delle organizzazioni, la sua coesione interna, sia connessa al grado di condivisione (o almeno di accettazione) di quella cultura.
Il modo in cui un’organizzazione funziona definisce qualcosa di molto più rilevante degli aspetti pratici che pur vengono fissati e che regolano il funzionamento e quindi l’efficacia nel raggiungere i propri obiettivi. Nel definire il modo in cui funziona, un’organizzazione fissa le basi della cultura con cui opera: i valori che guidano le decisioni, ciò che viene premiato o punito, l’autonomia e il senso di responsabilità richiesto.
… è non aver colto la centralità dell’organizzazione
Come molti anch’io penso che fare politica significhi essere attivi nella società, far vivere esperienze pratiche e cognitive. Ma come si fa ad essere attivi nella società nel nostro tempo? E qui torna la centralità della questione dell’organizzazione. Cioè delle risorse, umane ed economiche, di tecniche e tecnologie, delle competenze specialistiche.
I partiti di massa erano composti da apparati di decine e centinaia di persone retribuite (poco ma in modo sufficiente) per cercare di capire quello che gli accadeva intorno, leggere giornali e libri, formarsi e impegnarsi per preparare discorsi e relazioni, gestire riunioni ed elaborare documenti. Tutte attività attraverso le quali si era valutati non solo per il grado di fedeltà ai vertici di riferimento ma anche per talento, motivazione, serietà e capacità.
Certamente la struttura era gerarchica e basata sulla cooptazione oligarchica ma era tenuta insieme da un sistema di autorità basato sulla fiducia e sulla condivisione di questa relazione di fiducia cioè una ideologia o una cultura accettata se non del tutto condivisa.
Ma allora in una situazione in cui non esiste, e non credo possa esistere, soprattutto per un partito a vocazione maggioritaria, il cemento dell’ideologia ma solo valori di riferimento molto generali ai quali ispirare proposte di politiche pubbliche, quale può essere il cemento dell’organizzazione? Se non può esserci una ideologia o una visione del mondo ben definita (olistica ed esclusiva), ma solo valori guida generali (plurali e inclusivi), credo che rimanga a disposizione soprattutto la condivisione di regole per stare insieme tra diversi e cercare la convergenza su una proposta di governo realistica e realizzabile.
E questa capacità di tener insieme i diversi dovrebbe diventare una prospettiva appassionante, non un “contratto civilistico” ma un’opportunità nuova per trovare quelle soluzioni di governo che da anni molti ritengono necessarie ma nessuno riesce a realizzare.
Credo che la complessità della nostra società e la sua specifica forma della differenziazione abbiano distrutto la possibilità di basare una organizzazione politica che aspira ad essere maggioranza di governo su una ideologia o un asse culturale che dir si voglia.
La necessità di procedure condivise per superare i conflitti
L’eccedenza di opportunità che una società complessa mette a disposizione è così ampia e ridondante che difficilmente può essere ricompresa senza tensioni all’interno di un’ideologia sufficientemente coesa ed omogenea. L’affermazione del populismo da un lato e i suoi insuccessi dall’altro, con la loro tragica vocazione a semplificare fino all’osso problemi di straordinaria quanto inedita complessità, sono la dimostrazione più evidente dell’inadeguatezza di ogni forma culturale che abbia la presunzione di procedere a una drastica reductio ad unum di una unitas multiplex come la società di oggi.
Per semplificare la complessità bisogna condividere le procedure di superamento dei conflitti e di armonizzazione delle differenze, nella consapevolezza che quel superamento non avviene necessariamente nel merito e nella sostanza della soluzione che viene individuata, ma per lo più attraverso la condivisione delle procedure che hanno permesso in chiave contingente la soluzione dei conflitti, riconoscendo il permanere delle differenze come un aspetto che contribuisce alla soluzione dei conflitti stessi.
Il leader come semplificatore delle complessità
E la prima di queste procedure o regole organizzative riguarda la scelta del leader (o della leadership). Il leader va considerato un efficace semplificatore della complessità, anche se ovviamente va affiancato da procedure che ne bilancino la naturale propensione all’accentramento delle decisioni.
Nella campagna congressuale e in ogni occasione pubblica recente, Nicola Zingaretti e i suoi sostenitori hanno sostenuto all’unisono “costruiremo un partito del tutto nuovo”, “il partito democratico ha bisogno di una rifondazione”, “sarà una cosa del tutto nuova”. A sostegno di queste affermazioni credo vi sia l’intenzione (onesta e legittima, ben inteso) di rimuovere le caratteristiche fondamentali che avevano connotato tutta l’esperienza vissuta finora dal PD, in particolare quella visione del “partito a vocazione maggioritaria”, l’identificazione fra premiership e leadership e la reale contendibilità della leadership aperta agli elettori (quindi una forma nuova di membership composta da iscritti ed elettori). Comportamenti diventati connotati distintivi dell’organizzazione, identità stessa del PD.
Non casualmente si tratta di quelle procedure che hanno permesso la affermazione di Matteo Renzi, e che spesso sono state additate, fuori e dentro il PD, come causa degenerativa della natura stessa di un partito degno di questo nome. Dimenticando che l’idea di “un partito degno di questo nome”, coincidente con l’idealtipo del partito a integrazione di massa, vive ormai soltanto in un mondo che non c’è più.
La messa in discussione di queste caratteristiche crea una condizione del tutto nuova: il nuovo partito democratico rifondato non credo che ricorrerà più a quella competizione veramente aperta per la leadership. Ma quella è la principale di quelle regole e procedure che permettevano e permettono di tenere insieme un’organizzazione pluri ideologica o pluri culturale adatta alla particolare fase storica in cui ci troviamo, dove la complessità cresce sempre più e non ci sono né ideologie né assi culturali unici o unificanti in grado di determinarne una semplificazione univoca.
Il riconoscimento reciproco tra maggioranza e minoranza
Un’organizzazione a vocazione maggioritaria (che non può essere ridotta al tentativo di accrescere i voti, ma deve essere intesa come la costruzione di una cultura che cerca di produrre dentro di sè la proposta capace di parlare all’intera società e raggiungere se non la maggioranza almeno una quantità di voti che permetta di governare) che riconosca alla sua leadership un ruolo centrale e decisivo, non può che essere tenuta insieme – oltre che da valori guida di riferimento – dall’accettazione di procedure basate sul riconoscimento reciproco tra maggioranza e minoranza.
Ecco il grande problema che tutti i segretari che si sono alternati alla guida del partito democratico, compreso Matteo Renzi, non hanno compreso, voluto o saputo affrontare: strutturare culturalmente l’organizzazione del partito democratico. Inserire in una cornice di senso forte questi connotati fondativi, che restano anche gli elementi costitutivi dell’unica identità culturale e organizzativa che il PD ha saputo fin qui costruire, e che risultano ben più chiari agli occhi dei suoi elettori di quanto non lo siano mai stati per i suoi dirigenti.
Pensiamo alle primarie aperte per le cariche monocratiche, tratto fortemente connotativo, nemmeno quelle sono mai diventate, un elemento costitutivo, diciamo “costituzionale” del PD. Ricordo di aver letto e sentito spesso dire le primarie non sono un dogma, si fanno se sono necessarie. Cioè se non siamo d’ accordo. Affermazioni che inserivano chiaramente le primarie non nella fisiologia ma nella patologia del processo decisionale dell’organizzazione.
Mettersi d’accordo prima e senza primarie aperte rilancia l’idea di un partito regolato da intese oligarchiche. Ma senza una ideologia che sostenga la struttura gerarchica, l’oligarchica non può che dare spazio ai rapporti di forza, quindi alla segmentazione e alle correnti.
Nella cultura politica del PD, quella volenti o nolenti creata dalla prassi, non è passato il concetto che il vertice di un sistema politico democratico ma anche di un partito “democratico” è composto da una maggioranza e da una minoranza, una minoranza che riconosce la maggioranza perché sa che esistono le condizioni per poter diventare maggioranza. E questo sta nelle procedure, nelle regole dell’organizzazione.
E richiamo solo di sfuggita il fatto non secondario che le cosiddette primarie rappresentavano due aspetti importanti della presenza organizzata del partito nella società. Il primo interno, dare uno scopo importante alle organizzazioni sul territorio, organizzare il più partecipato momento di coinvolgimento democratico mai vissuto in Italia. Il secondo esterno, una risposta importante alla crisi di legittimità delle élite e al desiderio di dire la propria che i processi di secolarizzazione e la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione e i social network avevano diffuso nella società.
Una cultura veramente democratica non ha Verità
C’è infine un altro nodo sul quale secondo me bisogna riflettere. Il mancato riconoscimento reciproco connesso alla indispensabile natura competitiva e aperta della selezione del leader non passa perché dentro la cultura politica del PD c’è ancora un pezzo consistente di persone (di varia estrazione) convinte che esista la Verità (e logicamente sia la loro perché deriva dalla giusta chiave di lettura del mondo) e che a questa verità ci si possa arrivare attraverso il confronto dialettico che sicuramente produrrà la Sintesi, (di qui il noi e non l’io).
Casomai con i tre giorni di congresso “vero” o con la costituente delle idee. Per giorni e giorni ci si mette a dibattere e dopo, la razionalità dialogica, ci porterà sicuramente a convergere sulla verità! L’importante è essere convinti di avere ragione che è poi “la Ragione della Storia”.
Addio conflitti e differenze di vedute, addio complessità e addio funzione del leader innovatore semplificatore di complessità. Ovviamente non si prende nemmeno in considerazione l’opinione di Jason Brennan che dal dialogo possano uscire vincenti più gli Hooligans dei Vulcaniani.
Per accettare che, dati alcuni valori comuni di riferimento, siano poi le procedure che regolano e garantiscano una competizione leale ad essere il cemento di un partito “maggioritario”, bisogna viversi come portatori di verità provvisorie e parziali, esposte alla falsificazione, viversi come persone che hanno la necessità di trovare regole per accettarsi nella diversità e per continuare a competere per mettere in atto le proprie convinzioni.
Credo che questo sia l’elemento fondamentale di una cultura veramente democratica da tradurre in procedure organizzative, che diano forma al modo nel quale si sta nella società. E credo che questo debba interessare tutti, chi resta e chi va.
Ha fondato MR & Associati Comunicazione una società di consulenza oggi specializzata nel campo della web reputation. Consulente di comunicazione pubblica e politica, è docente a contratto all’Università di Milano. È autore con Nicolò Addario di “Comunicare la politica”, Monduzzi Editoriale, 2016, e ConSenso – “La comunicazione politica tra strumenti e significati”, Guerini e Associati, 2013. Collaboratore del “Il Riformista” e “Europa”, membro del Comitato scientifico della rivista “Comunicazione Politica”, edita da Il Mulino. Ha curato l’edizione italiana de “La rivoluzione silenziosa” di R. Inglehart, “I Neoconservatori” di P. Steinfel e “L’uso pubblico dell’interesse privato” di C. Schultze.