di Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Giorgio Tonini
La Segretaria Schlein ha pieno diritto di tentare di realizzare la piattaforma politico-culturale e programmatica con cui ha vinto il Congresso del Pd. Noi, che abbiamo limpidamente avversato quella piattaforma, mettendo in evidenza il rischio di un regresso verso un antagonismo identitario incoerente con la natura stessa del Pd come partito a vocazione maggioritaria, abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di far vivere (e di far percepire all’esterno del partito) una visione, una cultura politica e una proposta programmatica distinta e, per molti aspetti, alternativa a quella di Schlein.
Abbiamo questo diritto, perché la nostra cultura politica (espressione, al pari di quella di cui Schlein è portatrice, di quelle “grandi tradizioni che, consapevoli della loro inadeguatezza, da sole, a costituire un nuovo quadro politico di riferimento per la società italiana”, confluiscono nel Pd), è essenziale per comporre quella ideologia democratica che nel nostro tempo sta sprigionando – da Hong Kong all’Iran, dalla Cina all’Ucraina – la sua straordinaria forza emancipatrice. Così consentendo che “democratico”, da aggettivo qualificativo di altre ideologie, diventi un sostantivo sufficiente a se stesso, identificativo di un autonomo progetto di emancipazione. È questa la ragione per la quale continuiamo a ritenere che il termine “democratico”, proprio perché più comprensivo di “socialista”, non possa in alcun modo essere messo in discussione nella denominazione del nostro gruppo parlamentare ed andrebbe esteso anche al partito europeo.
Nel Manifesto dei valori del 2008 (l’unico nel quale continuiamo a riconoscerci pienamente), è l’impegno costituente delle diverse culture del riformismo italiano – fino ad allora disperse in più partiti e quasi sempre minoritarie- ciò che dà un fondamento di cultura politica – l’ideologia democratica in quanto tale – alla funzione che il Pd assegna a se stesso: costituire – per livello di radicamento sociale e di consenso elettorale, per la qualità e la legittimazione della sua leadership individuale e collettiva, per il suo europeismo visionario – il partito asse di una credibile alternativa di governo al destra-centro.
L’effettiva contendibilità di linea politica e leadership è l’indispensabile corollario di questo fondativo pluralismo interno, poiché garantisce al tempo stesso dell’ampiezza della rappresentanza e della capacità di decisione del partito. Per questo sono da evitare come la peste sia le scissioni ad opera di minoranze sconfitte in regolari Congressi, sia le sollecitazioni ad accomodarsi fuori rivolte da maggioranze inconsapevoli ed arroganti a chi non condivide la linea politica e le scelte del leader pro-tempore.
Rendere visibile ed efficace la presenza riformista nel Pd è soprattutto un dovere. Innanzitutto perché questa presenza è in grado di migliorare le performance del partito nella gestione dell’agenda politica, condizionando la Segretaria e la sua maggioranza sulle scelte fondamentali, grazie a concrete proposte di iniziativa politica.
Dopo il Congresso, la Segretaria ha sostanzialmente mantenuto una continuità sul rigoroso posizionamento euroatlantico rispetto all’aggressione russa in Ucraina. Al consolidamento di questa scelta – nel rapporto con il Governo Meloni e con i cittadini italiani – dobbiamo e vogliamo attivamente concorrere, perché la collocazione europea ed atlantica è la prima che definisce l’identità di un partito e la sua visione della funzione dell’Italia nel mondo.
Quando invece Schlein sembra tentata – in tema di riforme istituzionali – dal rifugiarsi nell’Aventino, con il fallace argomento che non si tratterebbe di questione prioritaria nell’agenda del Paese, tocca a noi riformisti un’aperta contestazione di una scelta che – contraddicendo una delle architravi della piattaforma del Pd e, prima ancora, dell’Ulivo del 1996 – finirebbe per trasferire gratuitamente alla destra un patrimonio di riformismo istituzionale costitutivo dell’identità stessa del Partito Democratico.
Se Schlein è timida nel rivendicare ai Governi del Pd o sostenuti dal Pd un primato nella riduzione strutturale del cuneo fiscale sul lavoro che Meloni attribuisce al mini-intervento del suo recente decreto (non strutturale e in larga misura “divorato” dalla mancata neutralizzazione del fiscal drag, in un contesto di elevata inflazione), tocca a noi riformisti – consapevoli che il campo della nostra responsabilità non ha i confini temporali né dell’ultimo né del prossimo Congresso – mettere in evidenza i risultati quali-quantitativi del nostro impegno, anche al fine di impegnare l’intero partito su di un versante su cui il nostro rendiconto non è altrettanto soddisfacente: se i salari italiani sono così bassi, gli interventi di riduzione del prelievo fiscale sugli stessi possono alleviare la pena, ma non possono rimuovere la causa, che si chiama produttività del lavoro e dei fattori che non cresce adeguatamente o non cresce affatto.
La produttività cresce se il sistema pubblico di istruzione si organizza attorno all’obiettivo di garantire formazione di qualità anche ai bambini meno fortunati per il livello di istruzione, di reddito e di patrimonio della famiglia in cui nascono. Ma ancora esitiamo a farci i protagonisti della costruzione di un penetrante sistema di valutazione, che favorisca l’introduzione di forti discriminazioni positive a favore di chi si impegna di più e ottiene migliori risultati nelle realtà sociali e territoriali più difficili. Senza valutare tutto e tutti il sistema scolastico non favorisce né la crescita economica, né il superamento della disuguaglianza delle opportunità.
La produttività cresce se cresce la partecipazione delle donne alle forze di lavoro. Ma nella definizione delle nostre proposte di riforma della tassazione non trova ancora posto l’idea di provare a forzare il cambiamento attraverso una secca riduzione del prelievo Irpef sul reddito da lavoro – dipendente e autonomo – delle donne, così da favorire un mutamento non solo delle convenienze economiche, ma anche degli atteggiamenti culturali verso il lavoro fuori casa.
La produttività cresce se la contrattazione tra le parti, superando le diffidenze e le resistenze di una parte del padronato e di una parte della sinistra sindacale e politica, si concentra -nel quadro costituito dal contratto nazionale sulla dimensione dell’impresa, del gruppo, della filiera, del distretto, del territorio, là dove la produttività si può davvero misurare. Una capillare diffusione del confronto/conflitto tra lavoratori e datori di lavoro a questo livello crea l’humus nel quale sviluppare forme nuove (almeno per l’Italia) di democrazia economica -dalla partecipazione agli utili fino all’azionariato dei lavoratori, dal Welfare aziendale alla presenza negli organismi di indirizzo. Introdurre queste innovazioni è oggi più facile di ieri, perché le necessarie riforme possono contare sulle ingentissime risorse finanziarie del programma Next Generation EU (il motore della politica fiscale espansiva che è mancato ai Governi dell’ultimo decennio), i cui massicci investimenti possono a loro volta sostenere più efficacemente la crescita grazie alle riforme che li accompagnano.
Ma il Governo Meloni rimanda le riforme (a partire da quelle più facili, come le gare per le concessioni balneari); irrita i partner europei non ratificando il nuovo MES; sembra incapace di incidere nel confronto sul nuovo Patto di stabilità, fino a ieri magistralmente impostato da Mario Draghi tra i capi di governo e da Paolo Gentiloni in Commissione. E diffonde pessimismo sul rispetto dei tempi in fatto di concreta realizzazione degli investimenti. Un imbarazzante insieme di irresolutezza (abbandonare le sciocchezze sostenute sul MES nel recentissimo passato è necessario, ma ha costi politici rilevanti), incompetenza e tentazioni di ricorrere allo scaricabarile che apre un’autostrada per un’opposizione che voglia ispirarsi alle effettive priorità del Paese e non ad una identità da testimoniare nel vuoto di iniziativa politica.
Certo, Schlein può ignorare queste sollecitazioni della minoranza riformista e proseguire sulla sua strada, insistendo sulle riforme istituzionali come diversivo e sulla priorità della redistribuzione rispetto alla crescita (nella pretesa che, alla fine, quest’ultima segua la prima, come l’intendenza napoleonica). Sarà un peccato, perché per questa via il Pd potrà forse recuperare qualche punto percentuale (alle Europee si vota col proporzionale) a danno del M5S, ma non riuscirà a ridurre la distanza rispetto a Meloni sul terreno che conta davvero: la credibilità della proposta di governo.
Il timore di non riuscire a modificare l’orientamento di Schlein non può tuttavia indurci al silenzio rassegnato della fase post-congressuale: c’è una larga parte dell’elettorato di centrosinistra che ha bisogno di un riferimento solido, e oggi non lo trova. I riformisti del Pd, con una visibile battaglia delle idee all’interno del partito, possono fornirglielo. È molto probabile che non si tratterà di una battaglia breve, accompagnata da risultati immediati. Anche per questo, è indispensabile che cominci subito, prima dell’estate, promuovendo un’occasione di confronto, aperto anche all’esterno del partito, per discutere, aggiornare e rilanciare un’ambiziosa agenda riformista.