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Earth Day, il significato della Giornata Mondiale della Terra

Alfonso Pascale mercoledì 22 Aprile 2020
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di Alfonso Pascale

 

Cinquant’anni fa, venti milioni di americani scesero in piazza in difesa dell’ambiente. Da allora, il 22 aprile, tutto il mondo celebra la Giornata della Terra. La salvaguardia del pianeta è così diventata una tematica che attrae sempre più l’interesse e la sensibilità di tante persone. Un ambito cruciale su cui sviluppare riflessioni e ragionamenti per ripensare i nostri comportamenti, ridimensionare la nostra volontà di potenza e tracciare nuovi percorsi di ricerca scientifica e politiche volte alla sostenibilità.

Come tutti i settori, anche l’agricoltura è pienamente coinvolta nella sfida ambientale. Il suo sviluppo nei paesi occidentali ha risolto finalmente il problema dell’autosufficienza alimentare di quelle popolazioni ma ha al tempo stesso determinato gravi contraddizioni. L’attività umana che originariamente dette vita ai primi insediamenti comunitari stanziali, si è trasformata in un’attività produttiva capace di inquinare e di erodere capitale sociale e ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio.

Ad un anno dalla prima Giornata Mondiale della Terra, il tema è ripreso da Paolo VI nella lettera apostolica “Octogesima Adveniens”: “L’uomo prende coscienza bruscamente (…) dello sfruttamento sconsiderato della natura, tanto da rischiare di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”. E insieme al degrado ambientale, Papa Montini parla del “contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile”.

Dopo pochi mesi esce il rapporto sui “limiti dello sviluppo” commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) dal Club di Roma che annuncia un dato sconvolgente: dopo il 2000 l’umanità si sarebbe scontrata con la rarefazione delle risorse naturali. Nel frattempo la guerra del Kippur fa emergere la natura finita del petrolio e pone all’attenzione dell’opinione pubblica la centralità della questione energetica.

Il 9 giugno 1973 Giovanni Franzoni, abate di S. Paolo fuori le Mura, a Roma, pubblica la lettera pastorale “La Terra è di Dio”, con cui, in vista del Giubileo del 1975, affronta il tema della “proprietà della terra come condizionamento alla crescita e all’ordinamento della ‘città dell’uomo’”. Nella tradizione biblica del vecchio testamento, il giubileo era l’anno in cui si ripristinava la distribuzione originaria della proprietà terriera. Prendendo spunto da questo significato dell’Anno Santo, Franzoni pone al centro della sua riflessione il saccheggio dei territori urbanizzati e le intollerabili conseguenze sociali di un uso distorto della risorsa terra. E richiama a tal fine la citata lettera apostolica di Paolo VI che aveva denunciato la “crescita smisurata della città” come conseguenza dell’”espansione industriale”.

Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica lanciano anch’essi un allarme per quanto sta accadendo nel rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge la scarsità di tale risorsa, e Manlio Rossi-Doria redige la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo e prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna. In un discorso pronunciato al Senato il 27 maggio 1971, il professore di Portici afferma: “Quando dico che l’impegno ecologico dovrà contemporaneamente essere assolto a diversi livelli, intendo sostanzialmente dire che non basta prevedere l’elaborazione e l’attuazione di un certo numero di specifiche politiche di conservazione e difesa dell’ambiente, di prevenzione e riduzione degli inquinamenti. Occorre, infatti, andare bene al di là di questi interventi diretti perché i più solidi risultati si possono ottenere solo ripensando sistematicamente in chiave ecologica tutti i piani e gli atti nei quali si articola lo sviluppo economico e civile del paese, riformulando, alla luce delle esigenze ecologiche, tutte le politiche di settore nelle quali si esprime la politica generale dello Stato”.

Giungono dagli Stati Uniti le idee dei movimenti che avevano sostenuto il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel “Wildlife Restoration Act” del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt aveva ritenuto di riparare a una politica di indifferenza verso lo stato di conservazione della natura, e in particolare delle acque e delle foreste. Idee che si erano rafforzate con il principio di responsabilità di cui aveva parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica dei valori in modo tale che ogni individuo potesse agire nel rispetto di se stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale viveva l’uomo.

Alcuni avvertono in quegli anni l’esigenza di integrare tali apporti culturali di stampo anglosassone con la nostra cultura tecnico-scientifica, agronomica ed economico-agraria, che da tempo si cimentava, mediante un approccio aperto ad altre discipline, come la sociologia, la psicologia e le scienze dell’educazione, nell’accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si era manifestata la crisi ecologica. Un filone culturale combattuto, ridimensionato e ostacolato dalle forze dominanti, benché fosse erede di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche.

Ma, a distanza di cinquant’anni, questa ricucitura culturale non è ancora avvenuta per poter avviare seriamente un ripensamento delle nostre idee di sviluppo e rimarginare la frattura ecologica che si produsse tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

Dalla consapevolezza di questo ritardo bisogna dunque ripartire, con una visione globale dei problemi ambientali e coinvolgendo l’insieme dei cittadini, per ridefinire il rapporto tra scienza, tecnica e società, rifondandolo sulla responsabilità, sull’educazione e sull’interazione dei saperi. Si tratta di rivalutare i beni relazionali e il capitale sociale nei processi di sviluppo, cioè quei valori su cui la nuova ruralità ha inteso rifondare la funzione dell’agricoltura come generatrice di comunità. E si tratta anche di educarci ad adottare comportamenti e stili di vita responsabili con cui possiamo, personalmente e come gruppi umani, contribuire ad affrontare i complessi problemi che sono dinanzi all’umanità.

Nella transizione del sistema economico e produttivo verso una maggiore sostenibilità economica, sociale e ambientale, l’irruzione improvvisa e drammatica di Covid-19 ci impone un’accelerazione. Non perché succubi di chiacchieroni impenitenti che hanno immancabilmente colto anche questa occasione per inondarci di fanfaluche escatologiche, pseudoscientifiche, catastrofiste, millenariste, illiberali, antiglobaliste e sovraniste. Ma semplicemente perché questa emergenza fa letteralmente “emergere” i veri problemi. E ci ritroviamo come il viaggiatore di Marco Aurelio che ha dimenticato lo scopo del viaggio. Sulla scia delle riflessioni di esponenti della cultura, come Biagio de Giovanni, Franco Ferrarotti o Bernard-Henri Lévy, ci interroghiamo se non sia giunto il momento di rispondere alle domande di senso, di responsabilizzarci più convintamente, di ridurre l’albagia nel considerarci padroni di noi stessi, di elaborare un pensiero più modesto sul finito.

Al centro del nostro impegno vanno posti con forza gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030 e il modello di economia circolare. Occorre un cambio di paradigma nelle analisi, nelle politiche e nelle azioni innovative dei cittadini, della società civile, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni. Un modo nuovo di concepire lo sviluppo dovrà guidarci nel trasformare i rischi in opportunità e nel definire scenari di resilienza in un orizzonte di lungo periodo. È necessario un impegno straordinario per implementare di questi contenuti la democrazia negli stati nazionali e oltre gli stati, a partire dall’Unione Europea. Questo deve significare la Giornata Mondiale della Terra che celebriamo quest’anno.

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