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Elezioni 2013 e 2018: la reputazione perduta di Pd e Forza Italia

Stefano Ceccanti giovedì 2 Gennaio 2020
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di Stefano Ceccanti

Hans Schadee, Paolo Segatti e Cristiano Vezzoni hanno scritto un bel testo dal titolo “L’apocalisse della democrazia italiana. Alle origini di due terremoti elettorali”, appena uscito per Il Mulino. Un titolo dove, è bene chiarirlo, apocalisse è inteso in senso etimologico come scoperta, disvelamento.

La chiave esplicativa fondamentale è che non siano cambiati in modo radicale i punti di vista degli elettori sulle policies, al massimo ne sia  cambiato il grado di importanza, ma che piuttosto sia crollata l’autorevolezza, la capacità a risolvere i problemi, delle due forze su cui si era fondato il secondo sistema dei partiti, Pd e Forza Italia. Gli elettori, ad un certo punto, sulla base di questi “fattori di repulsione” (pag. 12), hanno quindi preferito “un salto nel buio” (pag. 10). E’ calata la “reputazione” del partito prima votato (pag. 148) più di quanto non siano cambiate le proprie specifiche opinioni.

In particolare l’apparizione sul lato dell’offerta del M5S ha consentito di calamitare lì i voti dei delusi, superando la difficoltà preesistente a cambiare campo tra centrodestra e centrosinistra che bloccava gran parte dell’elettorato (pagg. 20 e 101). Un muro che di per sé sarebbe invece “ancora ben presente” (pag. 60). Il M5S ha quindi avuto successo perché ciascuno, uscendo dal proprio partito, vi ha voluto vedere le cose più simili alle proprie opinioni. Il M5S , come sostenuto da Kriesi, avrebbe avuto successo come “un partito populista di centro” raccogliendo elettori moderati sulle policies, ma radicali contro il funzionamento della democrazia rappresentativa (pag. 151).

I due passaggi che hanno inciso sono stati nel 2011 la caduta del Governo Berlusconi con i partiti ancora impreparati a presentare un’alternativa e che hanno finito per delegare la gestione della fase solo a un Governo tecnico, una confessione di impotenza ben più forte che non una Grande Coalizione esplicita, e poi il passaggio del referendum costituzionale, avvenuto mentre il debole miglioramento dell’economia non spostava la rassegnazione dell’elettorato rispetto all’incapacità delle forze politiche di cambiare effettivamente la situazione (pagg. 60 e 121) e che quindi in sostanza fu soprattutto un giudizio sul Governo e prescindere dal merito (pag. 138).

Il salto nel buio è andato a chi (Lega, M5S) era non casualmente rimasto all’opposizione in tutto il periodo considerato (pag. 122).

Il Volume presenta poi un bel Capitolo (il settimo) sulle contestazioni alla democrazia rappresentativa, convergenti, ma diverse. Mentre nell’ottica del M5s il problema è rappresentato dall’eccessiva autonomia degli eletti, in quella della Lega il nodo è l’eccesso di influenza delle élit, Nel primo caso, quindi, la soluzione è l’innesto di forme di democrazia diretta, mentre nel secondo è la delega plebiscitaria al leader (pag. 123). Nonostante tutti i limiti dei partiti e della democrazia rappresentativa, e i possibili correttivi da introdurre, troviamo qui alcune scorciatoie che gli Autori ben confutano. Queste spinte, e in particolare la prima, tendono a veicolare l’immagine che, al netto degli eletti e delle élite, i cittadini di per sé tenderebbero a pensarla allo stesso modo, sottovalutando i conflitti reali nella società. E’ un’idea distorta che sulla scia di Hibbling e Morse gli Autori definiscono “democrazia invisibile” o “impolitica” (pag. 155).

A dir la verità, però, mi permetto di aggiungere, se un’idea sbagliata ottiene consenso reale occorre porsi il problema del perché ciò accada: questa reazione non ci sarebbe stata se in tutto il periodo del secondo sistema dei partiti le leadership politiche con qualche rara eccezione (come Veltroni nel 2008) non avessero esagerato nella partigianeria eccitando l’elettorato di appartenenza e sovrastimando le distanze reali, impedendo anche di accordi di sistema tra diversi. L’opinione quindi per cui la politica crea divisioni che non esisterebbero nella società è in generale falsa, però non è priva di alcune anime di verità. Anche la teoria di un sistema ingessato dalle élite e poco capace di decidere trova alcuni agganci reali, specie a chi confronta l’efficacia dei sistemi comunali e regionali con quello nazionale, per quanto quest’ultimo sia obiettivamente più complesso.

Il punto è però che alle nuove forze votate si è finito per chiedere qualcosa di profondamente contraddittorio: “un radicale cambiamento” ma col desiderio non tanto recondito di riprodurre “le sicurezze del passato, come se i problemi dell’oggi non venissero proprio da quel passato” (pag. 160).

La conclusione è che nulla appare scontato, anche perché le motivazioni di voto, al netto di tutti i possibili sistemi elettorali vigenti e futuri, si sono ormai spostate da quelle espressive di un’identità a quelle strumentali in funzione della scelta di un Governo (pag. 158). Da questo punto di vista, però, aggiungerei che il problema si presente asimmetrico: Forza Italia è stata sfidata dalla Lega nella sua parte del campo e, quindi, ben difficilmente può riprendersi come partito egemone di quell’area. Viceversa il Pd è stato sfidato da un soggetto eterogeneo, che ha più difficoltà a mantenere il proprio collante, specie dopo due diverse esperienze di Governo.

In ogni caso la lezione del testo è chiara: l’offerta, vecchia, nuova e rinnovata, è più decisiva delle domande, delle posizioni di policies degli elettori. Non ci sono determinismi.

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