di Paolo Pombeni
Il centro-sinistra è stato la croce e delizia (si fa per dire) della politica italiana dal 1953 in avanti. Fu col fallimento della cosiddetta “legge truffa” che la Democrazia Cristiana, partito di maggioranza relativa, ma non in condizione di governare da sola, si pose il problema di allargare la coalizione di governo che promuoveva “aprendosi a sinistra”, cioè coinvolgendo nel quadro che puntava a reggere il sistema repubblicano il partito socialista. La questione fu affrontata direttamente da De Gasperi nel congresso dc a Napoli nel 1954 ponendo il tema della necessaria premessa di una rottura del PSI col PCI, che allora, per le note ragioni di politica internazionale, era considerato non includibile in una coalizione di governo nell’area “occidentale”.
Non abbiamo ovviamente intenzione di fare qui una storia del problema della “apertura a sinistra”: richiederebbe uno spazio ben più ampio di un articolo. Vogliamo semplicemente richiamare la stranezza di una evoluzione del nostro quadro politico in cui si sono ormai perse alcune coordinate originarie, mentre si continuano ad usare definizioni “di campo” che non si capisce più bene a cosa si riferiscano. Infatti il quadro da cui ci era mossi era, semplificando un poco, questo: esisteva un centro massiccio (la DC), che non poteva trovare una stabile alleanza a destra, perché il partito legittimamente parte del sistema repubblicano, cioè i liberali, era troppo piccolo per fare maggioranze, mentre quelli che c’erano alla sua destra, monarchici e ancor più post-fascisti, erano difficilmente compatibili con la nuova repubblica. Quel centro poteva cercare di guardare a sinistra, ma non oltre il PSI per la ragioni dette sopra. Dopo molto tempo l’accordo sull’esclusione del PCI dal quadro costituzional-governativo veniva meno, ma al contempo si presentava, dapprima in maniera molto esigua e confusa, una “estrema sinistra” oltre il PCI.
In seguito, per farla breve, scompariva la DC e di conseguenza il mitico centro, scomparivano quasi tutti i partiti della prima repubblica, mentre la “destra estrema” rinunciava, almeno formalmente, al post-fascismo. Sembrava così si potesse arrivare a quello che fiumi di scritti di studiosi e di osservatori sostenevano essere lo schema ideale del confronto nel costituzionalismo occidentale: una destra ed una sinistra che competevano per il potere, essendo il centro non un partito, ma una fascia elettorale che pencolava da una parte e dall’altra determinando di volta in volta il vincitore delle elezioni.
Sappiamo che questo schema non ha mai funzionato per ragioni che qui sarebbe lungo esaminare, ma principalmente perché non si è mai riusciti a superare la nostra tendenza alla creazione infinita di partiti e partitini che correvano a collocarsi variamente nella geografia tradizionale del “continuum” che ha come estremi le manifestazioni più dure e pure della destra e della sinistra. Questo ha determinato l’eterna rincorsa delle organizzazioni politiche a cercar di produrre dei “blocchi”, che sono qualcosa di più delle normali “coalizioni”, che potessero contrapporsi contando su bacini elettorali molto ampi.
Ai tempi di Berlusconi era sembrato possibile stabilizzare i due bocchi. Berlusconi era un uomo di centro che si associava la destra, il partito erede del PCI, comunque si chiamasse, era una specie di perno che associava a sé tanto quel centro progressista reduce del dissolvimento dei partiti della prima repubblica, quanto il vario mondo della “nuova sinistra” che ne criticava il riformismo in nome dell’eterna suggestione massimalista.
Oggi anche questo universo si è dissolto nel nulla. La destra ha come perno precario la Lega, partito con collocazione identitaria incerta (attualmente radical-demagogica per lo più), insidiata dal partito di Giorgia Meloni che pare una rivisitazione dell’estremismo popolar-conservatore. La sinistra non si sa più dov’è, perché il PD non riesce a chiarire la sua collocazione, i Cinque Stelle sono sempre più populismo confuso, l’estrema sinistra è un ectoplasma di incerta consistenza.
Ma soprattutto non esiste più un centro. La DC poteva mettersi in quella posizione nella sua rivendicazione o presunzione di non accettare di essere assimilata né alla destra, di cui rifiutava il conservatorismo, né alla sinistra, che vedeva come succube in definitiva del modello comunista. Oggi non c’è più possibilità di tenere quella posizione, che dipendeva dalla storia del tutto particolare di quello che era “il mondo cattolico” (che ha cessato di esistere da trent’anni almeno). Forza Italia è un’appendice tollerata della destra, ma soprattutto nell’area di quello che una volta era “il progressismo” di filiera diversa dalla sinistra storica non c’è alcuna formazione dotata di un’identità che non sia quella di un gruppetto di supporto a qualche leader che punta al partitino personale.
Il PD non vuole accettare una collocazione che ne accentui decisamente la componente riformista, sia pure di sinistra, lasciando per strada o costringendo a posizioni subalterne i vari utopismi che vagano qua e là senza alcun vero disegno sul futuro del paese. Ma in questo modo abbiamo una geografia politica squilibrata, dove l’unico “blocco” esistente è quello di destra, mentre di fronte ad esso si colloca una incerta confederazione di sigle senza leadership che invano si cerca di definire come nuovo centro-sinistra, sperando nella forza evocativa di parole che richiamano tempi passati.
Tratto da www.mentepolitica.it
È professore emerito dell’Università di Bologna. È stato professore ordinario di Storia dei sistemi politici europei e di Storia dell’ordine internazionale presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Attualmente dirige il periodico on line Mente Politica (www.mentepolitica.it) ed è editorialista de Il Sole 24Ore. È membro del consiglio editoriale della casa editrice il Mulino e del comitato di direzione della rivista Il Mulino.