di Carlo Fusaro
La lista europeista: proporla un dovere morale e politico, votarla una scelta
Le elezioni dei rappresentanti dei 27 al Parlamento europeo che si terranno dal 6 al 9 giugno prossimo sono elezioni diverse da quelle cui siamo abituati. È questa la considerazione dalla quale vorrei partire.
Prendiamo l’Italia. Nei comuni eleggiamo sindaco e consiglio comunale; nelle regioni eleggiamo presidente della Regione e consiglio regionale; a livello parlamentare (riforme venture a parte) eleggiamo deputati e senatori, sulla base di proposte di possibili maggioranze di coalizione che si confrontano (con più o meno fortunate ipotesi di terzi poli: nel 1994, nel 2013, nel 2018 e anche nel 2022): che sia il voto a determinare l’investitura pressoché automatica del governo (1994, 1996, 2001, 2006, 2008, 2022) o che questa sia rimessa a negoziazioni post-elettorali fra partiti e gruppi parlamentari, in ogni caso i cittadini sanno che il loro voto è finalizzato a produrre a un tempo rappresentanza e governo. Ciò è nella natura di tutti i regimi parlamentari.
Il caso delle elezioni europee è differente.
Perché diverse sono le istituzioni dell’Unione europea: che solo in parte somigliano alle istituzioni nazionali. Del resto solo dal 1979 (certo: ormai 45 anni fa) il Parlamento europeo è espressione diretta dei cittadini. La peculiarità delle istituzioni dell’Ue dipende dalle sue origini e dalla sua evoluzione. L’Ue è la trasformazione e unificazione di tre diverse organizzazioni europee: Comunità economica, Euratom, Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Queste avevano ciascuna una finalità specifica e limitata: nelle loro origini degli anni Cinquanta del secolo scorso, perciò, avevano natura non politica generale, ma amministrativa. Di qui il ruolo e le attribuzioni, in ciascuna comunità, della commissione, organo di vertice amministrativo, appunto.
Dall’Atto unico europeo del 1986 al Trattato di Maastricht (col quale nasce l’Unione) le cose sono cambiate. Ma resta la differenza rispetto all’organizzazione istituzionale dei singoli Stati membri. Nell’Unione abbiamo il Parlamento (eletto direttamente), il Consiglio (nelle sue diverse composizioni) composto dai capi di governo (e di Stato: il presidente francese), la Commissione che resta un particolare organo esecutivo con la titolarità esclusiva del potere di iniziativa normativa: le decisioni, poi, vengono prese dal Consiglio e dal Parlamento (in negoziato con la stessa Commissione).
La Commissione è composta da un presidente che è proposto dal Consiglio (= governi) al Parlamento (=popoli) che lo elegge e da una serie di commissari proposti dal presidente della Commissione eletto e dal Consiglio, a loro volta sottoposti ad audizioni individuali dal Parlamento che si pronuncia su ciascuno di essi; infine, l’intera Commissione è votata dal Parlamento e nominata formalmente dal Consiglio. Questo barocco sistema comporta un notevole grado di distacco fra voto popolare e nomina del “governo” dell’Unione. Un vero e proprio rapporto fiduciario Parlamento-Commissione non c’è (anche se il PE può obbligare alle dimissioni la presidente). Tanto è vero che solo una volta in quasi cinquant’anni il candidato del maggior partito continentale è diventato presidente. Non così anche Von der Leyen nome di cui nessuno aveva parlato e venuto fuori in consiglio ad elezioni fatte.
Tutto ciò è tanto vero che il tribunale costituzionale tedesco in una celebre sentenza di qualche anno fa stabilì che la clausola di sbarramento, allora prevista in Germania per le elezioni euroee, non si giustificasse, proprio perché non c’era, come per le elezioni nazionali, l’esigenza di favorire la governabilità evitando un’eccessiva frammentazione della rappresentanza (a questo serve lo sbarramento).
Dal 2009, invece, la legge per l’elezione della rappresentanza italiana al PE prevede una clausola di sbarramento del 4% sul totale dei voti ottenuti da ciascuna lista a livello nazionale. I 76 rappresentanti sono suddivisi in cinque grandi circoscrizioni (Nord-est, Nord-ovest, Centro, Sud, Isole): e dopo essere ripartiti fra le liste che hanno superato lo sbarramento, sono assegnati in base al voto di preferenza che ciascun elettore può attribuire (una o due, se a candidati di genere diverso). La clausola di sbarramento fa sì che non producano rappresentanza tutti i voti dati alle liste che, anche per un solo voto, restino sotto quel fatidico 4%.
In base ai sondaggi seri più recenti (26 marzo 2024, Ipsos per “Corriere della Sera”) supererebbero oggi lo sbarramento solo i tre partiti della maggioranza che sorregge il governo Meloni (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia), il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle.
Qui si apre un problema molto serio per coloro i quali credono nella prioritaria esigenza di rilanciare il processo di integrazione europea per fare, ora più che mai, dell’Unione quel soggetto politico davvero in grado di tutelare la sicurezza, il benessere e la way of life dei popoli europei (dei 27 prima di tutto, ma anche dei paesi candidati all’accesso nonché degli altri dell’Europa geografica e non solo); per coloro che credono, in altri termini, nella necessità di costruire gli Stati Uniti d’Europa con una politica estera e di difesa comune, un comune politica per l’ambiente, un unico sistema finanziario, economico ed industriale.
Il problema è che, dato lo sbarramento al 4%, fra coloro che verrebbero eletti in Italia il 9 giugno potrebbero essere considerati affidabili, dal punto di vista europeista, solo i rappresentanti di Forza Italia e, si vuole sperare, quelli del Pd; euroscettici sicuri, pacifisti alla Chamberlain o addiritura filorussi sarebbero i rappresentanti del M5S e della Lega; di europeismo recente e solo strumentale, infine, i rappresentanti di FdI.
Questo significa che se gli italiani mandassero al PE solo rappresentanti di questi partiti maggiori, la delegazione italiana sarebbe composta per meno di un terzo da europeisti, per un terzo da euroscettici (di cui una parte filorussi) e per un terzo o poco più da europeisti di scarsa affidabilità. Per dirla in termini diversi: aderirebbero ai gruppi europeisti del PE (popolari, socialisti e democratici, verdi, liberali di Renew) un terzo scarso dei rappresentanti dell’Italia; gli altri due terzi si dividerebbero fra conservatori di ECR, estrema destra di Identità e democrazia, indipendenti. Un disastro.
L’indebolimento europeista della delegazione italiana avrebbe conseguenze negative, per l’Europa e per l’Italia: ovvie per l’Europa, perché, dopo la sconfitta dei conservatori polacchi, l’Italia sarebbe il maggior serbatoio di antieuropeismo o di europeismo scettico in Parlamento; per l’Italia, perché la capacità di influenza dei suoi rappresentanti sarebbe ridotta rispetto al passato, in quanto gran parte dei suoi rappresentanti sarebbe esclusa dalla futura maggioranza legislativa dell’Unione. Infatti, nonostante l’atteso rafforzamento degli antieuropeisti (conseguenza del previsto successo del partito della Le Pen in Francia e da Alternative für Deutschland in Germania, oltre agli italiani), tutto indica che i partiti europeisti saranno comunque in grado di imporre il loro indirizzo.
Tutto ciò spiega perché le forze più convintamente europeiste, che in Italia consistono oggi in buona parte di partiti che i sondaggi danno a rischio 4% (Azione, Italia Viva, + Europa) hanno un vero e proprio dovere di garantirsi una rappresentanza al PE: non solo e non tanto per sé stessi, ma per non dare seggi aggiuntivi a euroscettici, euro inaffidabili e sovranisti filoputiniani.
Per farlo, e per mobilitare il consenso dell’opinione pubblica più avvertita, l’unico modo è la famosa lista di scopo Stati Uniti d’Europa proposta da Emma Bonino e concordata, al momento, con Matteo Renzi (e con altre forze minori: liberaldemocratici, socialisti, Volt). Manca invece Azione di Carlo Calenda che, coi suoi alleati (PER, i repubblicani), si assume una seria doppia responsabilità: quella di indebolire la lista Stati Uniti d’Europa e mettere a rischio la propria rappresentanza (naviga poco sotto, poco sopra il 4%). Un errore che sarebbe difficile da perdonare, quali che siano i rapporti fra i singoli protagonisti dei diversi partiti.
Diversamente, unendo le proprie forze e mobilitandosi unitariamente, gli europeisti dovrebbero poter conquistare un numero di seggi sufficienti a ribaltare gli equilibri della delegazione italiana: se solo conquistassero 8-10 seggi il rapporto un terzo contro due terzi diventerebbe, almeno, un rapporto metà e metà. Addirittura gli europeisti veri potrebbero essere in leggera prevalenza. Con gran beneficio per l’Europa e per l’Italia (per chi pensa che ci sia bisogno di molta più Europa e che l’Ue sia l’unico strumento per affermare un’aggiornata sovranità).
Infine, un’ultima considerazione. La presenza di una competitiva lista europeista con certezza di superamento della clausola di sbarramento, potrebbe dare al Partito democratico (ma anche a Forza Italia) e a chi li guida un buon motivo per soppesare con più attenzione le proprie candidature: le voci di cui si legge in questi giorni, specie per il Pd, sono semplicemente raccapriccianti (oltre che un’ingiusta condanna nei confronti di numerosi parlamentari europei uscenti che si sono fatti onore a Bruxelles).
Europeisti, unitevi! Amici di Azione, date una mano anche voi! Euroscettici e sovranisti si contrastano non a chiacchiere ma coi voti: coi voti utili, naturalmente.
Presidente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San
Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).