Intervista a Sergio Fabbrini, a cura di Umberto De Giovannangeli*

 

Una riflessione a cavallo della storia, una lezione di alta politica. È quella di Sergio Fabbrini, professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la LUISS Guido Carli.

In occasione del centenario della Marcia su Roma, il 28 ottobre scorso, Piero Sansonetti annota: “C’è il rischio di un ritorno fascista, in Italia? No e sì. Certo non c’è il rischio del ritorno al regime. Né allo squadrismo. Né alle violenze e ai delitti, Né all’antisemitismo. Però, nello spirito pubblico, stanno prevalendo idee e schemi che del fascismo sono figli. Sia a destra che a sinistra sia soprattutto nell’area qualunquista. Del fascismo è restata viva l’ideologia suprematista, legalista, giustizialista, illiberale, anti-garantista, classista, gerarchica. Alcune di queste tendenze le troviamo soprattutto nella destra. Altre sono alla base del qualunquismo di 5 Stelle e rischiano di tracimare in vaste zone del Pd”. Lei come la vede?
Trovare una correlazione tra l’affermazione di una coalizione destracentro nelle ultime elezioni e il centenario della Marcia su Roma mi sembra molto ardito. Il fascismo nella sua configurazione storica non è oggi all’ordine del giorno di nessuna delle democrazie europee, almeno fra i 27 Stati membri dell’Unione Europea ma il discorso vale anche per quegli Stati europei come la Gran Bretagna, la Norvegia, la Svizzera che non sono membri dell’UE. Il fascismo è la risposta ad una crisi tipica del processo di industrializzazione, di formazione dello Stato nazionale, di ritardo del nostro Stato nazionale. Da questo punto di vista io non vedo una possibilità di replica. Ciò che mi colpisce nella vicenda attuale è che la crisi del ‘900 è stata molto più lunga in Italia che in altri Paesi.

In che senso professor Fabbrini?
Per molti aspetti la politica italiana del secondo dopoguerra, dal punto di vista della classe politica diffusa, è stata una politica condizionata dal ‘900. Quello che è successo oggi è una rilegittimazione del ceto politico che aveva le sue radici in quella esperienza novecentesca del fascismo e degli autoritarismi. Ed è una rivendicazione oggi della legittimità di questo ceto politico, in qualche modo non diversa da quella che aveva cercato il ceto politico che proveniva dal Partito comunista con l’operazione D’Alema del 1998. Anche in quel caso c’è stato un tentativo di rilegittimare il ceto politico che aveva dato vita, che proveniva, che si riconosceva nella cultura politica del Pci, come un ceto politico interno alla Repubblica. Con la differenza che il ceto politico che oggi Meloni rappresenta si è affermato attraverso una vittoria elettorale mentre ieri il ceto politico che si riconosceva o si vedeva rappresentato da D’Alema, si è affermato attraverso un’operazione di palazzo. Differenza non di poco conto. Qui vedo il problema dell’Italia. E ascoltando il discorso di Meloni oggi, ma se lo si ricorda anche quello di D’Alema, il problema appare in tutta la sua evidenza come un problema irrisolto. Su Meloni: in nessuna democrazia europea ci potrebbe essere un Primo ministro che si alza e dice: io sono sempre stato un difensore della libertà, cioè che ha bisogno di giustificare i fondamentali. In nessun altro posto. Noi abbiamo ancora oggi un problema di conciliazione nazionale. E questa è la questione che è alla base del ritardo politico del Paese. Una cosa è la rilegittimazione, o la legittimazione, del ceto politico oggi, che ha le sue radici nel Movimento sociale italiano, nell’esperienza fascista, e di ieri che aveva e per molti aspetti continua ad avere le sue radici nel Partito comunista italiano, altra cosa è la legittimazione di quella cultura politica. A me pare che l’errore sistemico compiuto dall’operazione D’Alema alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, fu quello di pensare che la legittimazione del ceto dei post comunisti coincidesse anche con la legittimazione della cultura politica comunista divenuta post comunista. Questo è stato un errore decisivo.

Perché?
Perché la legittimazione del ceto non si è accompagnata ad una rimessa in discussione dei paradigmi di quella cultura politica; paradigmi che non hanno mai pienamente riconosciuto di aver perso. Solamente il riconoscimento della sconfitta di quei paradigmi avrebbe portato alla piena legittimazione di quel ceto e al suo contributo alla nascita di un nuovo paradigma per la sinistra riformista in Italia. Ancora oggi ci trasciniamo questo fardello. Ora, se questa operazione viene replicata da Meloni, saremo ugualmente negli stessi problemi. Perché la legittimazione del ceto politico post fascista se non si accompagna ad un riconoscimento pieno, formale, di aver perso, e cioè di non aver riconosciuto l’importanza della democrazia, e quindi non diventa un’operazione anche di ridefinizione del paradigma, cosa vuol dire essere conservatori in una democrazia, esattamente come non hanno fatto i post comunisti che non si sono posti il problema di cosa significhi essere progressisti in una democrazia, se oggi Meloni fa questa stessa operazione dalemiana, di garantire a tutti i costi la continuità di fronte ad una evidente discontinuità, io credo che noi continueremo a ricercare quella conciliazione e continueremo a rimanere senza una destra conservatrice consolidata, così come ancora oggi siamo senza una sinistra riformatrice consolidata.

Dal dibattito sviluppatosi nei due rami del Parlamento sulla fiducia al Governo, lei che cosa ne ricava sia nella coalizione di maggioranza che nel campo delle opposizioni?
Come si dice in gergo c’è una “good news” e una “bad news”. La buona notizia è che con tutte le difficoltà abbiamo comunque una coalizione che ha chiaramente vinto. Questa coalizione è guidata da un partito, Fratelli d’Italia, che è stato all’opposizione alle precedenti esperienze di Governo, e quindi è in qualche modo una forma di semi alternanza, e ci sono tutte le condizioni perché quello che si è formato e ha ricevuto la fiducia di Camera e Senato, sia un Governo di legislatura. Io penso che questa sia una buona notizia per la nostra democrazia. Mi auguro che non ci sia qualcuno nelle varie opposizioni che pensi di entrare dalla finestra per rafforzare o sostituire qualcuno di questa coalizione. Noi dobbiamo abituarci che quando si perde si perde e quando si vince si governa sino a quando si può governare. L’alternativa a questa coalizione, al governo Meloni, è lo scioglimento del Parlamento. La mia impressione è che dobbiamo uscire dal formalismo politico e guardare alla sostanza politica. Questa è la buona notizia.

E la cattiva?
È che questa coalizione è tenuta in piedi più dalle cose che non dice che da quelle che esterna. È una coalizione che cammina giorno per giorno, nonostante le dichiarazioni della presidente del Consiglio che questo è un programma per dieci anni. La mia impressione è che in realtà lei non ha presentato un programma dei dieci anni. Ha confermato quel problema identitario di cui le dicevo prima, ma soprattutto ha lasciato inevasi i temi più importanti.

Vale a dire?
Il primo riguarda la questione dell’Europa. Il partito che guida l’European conservative, il raggruppamento dei conservatori europei al Parlamento europeo, che è tradizionalmente atlantico ma anti europeo, favorisce l’alleanza con gli americani ma sfavorisce il rafforzamento delle istituzioni sovranazionali europee. Un partito che ha questa lunga storia e che ha questo ruolo di responsabilità sovranazionale, come può giustificare il suo cambiamento come in parte Meloni ha fatto capire con il suo Governo, che noi accettiamo tutti i trattati, che siamo tra i fondatori dell’Unione Europea, che dobbiamo guardare ai nostri principali interlocutori che sono a Occidente, o perlomeno Germania e Francia, non facendo menzione dei rapporti che ha con la Polonia e l’Ungheria. Qui c’è un problema. Lei non lo dice, ma sa bene che esiste ed è di grossa portata politica e identitaria. Può seguirla il suo elettorato tradizionale in questa operazione oppure no? Per questo non dice che identità ha questo partito sul piano internazionale o su quello europeo. Parla dell’identità interna e glissa su quella esterna. Per di più in una coalizione in cui, come sappiamo, gli altri due partner sono decisamente pro putiniani e hanno un rapporto speciale con la Russia. Da questo punto di vista sono considerati a Washington come degli interlocutori inaffidabili. Come lei riuscirà a gestire questa cosa è tutto da scoprire. E poi sul piano interno c’è il problema del PNRR. Questo non è un programma tra i tanti. Questo è un programma che ha una importanza storica simile al Piano Marshall L’Italia pre Piano Marshall e l’Italia post Piano Marshall sono due Italie diverse. Quell’iniezione di finanziamenti, supervisionata da tecnocrazie, tecnici americani, che ha consentito all’Italia di modernizzarsi, ci ha cambiati da Paese agricolo in Paese industriale. Oggi il PNRR è qualcosa del genere. Anzi forse per molti aspetti è anche più significativo. Si tratta di capire se noi riusciamo a modernizzarci e a fare di queste risorse l’occasione storica che non abbiamo più avuto dalla fine della Seconda guerra mondiale. Meloni su questo dice piccole cose. Anzitutto non dice la sostanza.

E quale sarebbe questa sostanza, professor Fabbrini?
Lei ha sempre votato contro il PNRR. E adesso, cosa ne fa? Continua nella linea strutturata da Mario Draghi oppure dovrà soddisfare la sua constituency e dire che questa è una operazione delle tecnocrazie europee? Faccio questi due esempi per dire che quello che tiene insieme questa coalizione, che c’è, è più il non detto che il detto. E poi c’è il problema dell’opposizione…

Un problema mica da poco…
Personalmente ritengo che stare fuori dal Governo faccia bene. Perché fin quando si ha una qualche cointeressenza nel Governo non si fanno i conti con le proprie debolezze, con le proprie incongruenze. Io mi auguro che davvero sia una lunga traversata del deserto. Che tutte e tre le opposizioni stiano fuori dal Governo e aprano una discussione al loro interno su quella cosa che è rimasta sospesa dal 1998: cosa vuol dire essere sinistra riformista in Italia. Questo è il problema decisivo. Sono passati venticinque anni, un quarto di secolo, e ancora oggi noi non sappiamo che caratteristiche deve avere una sinistra che nella sua ragione sociale deve coniugare da un lato certamente la lotta alle diseguaglianze ma dall’altro deve avere necessariamente la promozione della crescita. Non si capisce come possa fare una politica di riduzione delle diseguaglianze in un Paese che non cresce, che non s’innova, che non si sviluppa. Nel gergo della sinistra è il rapporto tra bisogni e merito, ma in realtà è molto più di questo. Non è solamente aiutare chi ha bisogno e favorire chi se lo merita, ma capire che sono le due facce di una stessa medaglia. Non si può ridurre la diseguaglianza, che è forte in questo Paese, che la pandemia prima e la crisi energetica poi ha reso ancor più drammatica, non si può fare una politica di inclusione sociale se non si accetta di far ripartire, di far crescere, di modernizzare il sistema economico e con esso tutto quello che gli sta intorno, a cominciare dal sistema educativo, dall’amministrazione pubblica e così via. Queste due facce non possono essere rappresentate da due distinti partiti. Perché si tornerebbe all’identità post comunista irrisolta. Le due facce devono essere dentro un unico progetto riformista. Io voglio pensare che cinque anni di opposizione potranno forse aiutare a capire cos’è il riformismo. A quel punto che ci sia in una società avanzata una componente populista è abbastanza fisiologico. Ma pensare che una componente populista possa essere parte di un dibattito sul riformismo occidentale mi sembra un’illusione.