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Fare del partito una startup di successo

alberto-bitonti venerdì 18 Settembre 2015
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In un articolo di fine agosto apparso sul sito del think tank britannico Policy Network, Guillaume Liegey si è chiesto quali lezioni i partiti politici possano imparare dalle startup. La risposta, forse ovvia per alcuni, è solo una: diventare organizzazioni indispensabili che forniscano servizi indispensabili per le persone. Che problemi risolvono? Qual è il loro pubblico di riferimento? Perché sono migliori dei propri competitors? Queste sono le domande che ogni startup si deve porre per individuare la propria mission ed elaborare un modello di business vincente. Queste sono le domande che un partito politico, così come un’ambiziosa startup, deve porsi per essere un’organizzazione funzionale, vincente, scalabile (destinata cioè a crescere).

Qualcuno storcerà il naso di fronte al paragone, adducendo una irriducibile diversità ontologica tra sfera politica e sfera economica. Siamo davvero sicuri, tuttavia, che nel sempreverde dibattito sulla forma partito non si possano imparare preziose lezioni da un tale esercizio? D’altra parte la similitudine tra mercato e agone politico non è certo una novità: già Joseph Schumpeter più di settant’anni fa descriveva la democrazia come un meccanismo di libero mercato nel quale i partiti (al pari di aziende) offrono all’elettorato (i clienti) programmi, valori, policy (prodotti) al fine di vincerne il voto (l’acquisto), in una dinamica continua di concorrenza. Oggi, tuttavia, non si tratta più di analizzare la competizione tra i partiti per la conquista del consenso (data per assodata), bensì di ragionare su un ben più variegato panorama di canali di partecipazione politica, di attori della rappresentanza, di arene di impegno civile, che rappresentano i veri competitors dei partiti oggi.

A fronte di un costante calo (dalla fine degli anni Settanta in poi) della partecipazione elettorale, parallelo al calo delle iscrizioni ai partiti, di una maggiore complessità sociale, di una crescita costante del Terzo Settore, della molteplicità dei canali e delle forme che l’impegno civico assume oggi, vale la pena infatti riflettere più a fondo sul senso, sui fini (e quindi sui mezzi), alla base dell’esistenza dei partiti. Perché qualcuno dovrebbe scegliere di avvicinarsi ad un partito, dedicarvi il proprio tempo come militante (a titolo volontario ovviamente), preferendo un partito alle altre spesso più comode forme di impegno civile (associazioni, comitati di quartiere, ONG, gruppi Facebook, etc.)? Credo che i partiti oggi, e in particolare il Partito democratico, debbano porsi queste domande mentre ragionano sulla propria forma, se vogliono – proprio in ottica startup – investire e vivere di futuro, e non campare di rendita celebrando le vestigia di un glorioso passato inevitabilmente tramontato. Adottare una visione riformista significa proprio questo: analizzare la realtà con occhio pragmatico, non ideologico, aperto al cambiamento, e decidere di rispondere alle sfide del presente guardando al futuro e non al passato.

Quali servizi indispensabili fornisce un partito politico, che problemi risolve meglio di ogni altro e qual è il suo pubblico di riferimento?

Una traccia di risposta a queste domande, a mio avviso, non può che riguardare: a) il modo in cui si attirano i migliori talenti verso gli incarichi politici e pubblici, b) il modo in cui valori e interessi diversi contribuiscono a definire la propria proposta in termini di policy, e c) la capacità di mobilitare e motivare l’elettorato (non solo nel momento del voto, per esempio anche attraverso il sostegno economico).

Solo individuando le giuste risposte a queste domande un partito politico può ambire a fare come una startup di successo, ad assomigliare più a Facebook, e a non fare la fine della Kodak.

 

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