di Pietro Ichino
Mentre i privati che vogliono sopravvivere si arrabattano per riaprire tra mille costi (e rischi anche penali) aggiuntivi, troppi uffici pubblici non addetti ai servizi di prima linea restano chiusi: le pratiche burocratiche possono attendere
Vedo dappertutto imprenditori grandi e medi, artigiani, professionisti, che si arrabattano a organizzare le loro aziende in modo che possano riaprire senza esporre i dipendenti e i clienti al contagio, acquistando divisori in plexiglass, distributori di disinfettante e di mascherine, kit per il test sierologico, facendo acrobazie con orari e turni di lavoro per assicurare il distanziamento ed evitare gli spostamenti nelle ore di punta, attrezzandosi dove possibile per un lavoro da remoto effettivamente produttivo.
E pure rischiando: perché se poi, nonostante tutto, un dipendente si ammala nessun datore di lavoro in questo Paese, per quanto diligente, può avere la certezza di non essere incriminato per lesioni o – Dio non voglia – omicidio colposo.
Poi, però, mi accade di dover prendere un contatto – non di mera consultazione online – con gli Uffici del Catasto, e di ottenere questa risposta automatica: “Gli uffici resteranno chiusi fino a data da stabilirsi” (testuale, 16 marzo).
Più o meno stessa cosa per la Motorizzazione civile, per gran parte degli uffici della Regione e delle altre amministrazioni.
Ne parlo con il responsabile di una di queste, che pensosamente mi risponde: “Con l’epidemia ancora in corso non possiamo prenderci la responsabilità di riaprire: se qualcuno si ammala…”.
Già: nel settore privato se l’impresa vuole sopravvivere la responsabilità di riaprire qualcuno deve prendersela per forza; e i dipendenti devono adattarsi a lavorare con le mascherine, i guanti e i divisori di plexiglass tra le scrivanie.
Non accade altrettanto nella parte del settore pubblico non impegnata in prima linea nei servizi essenziali: quella dove viene indicato per le statistiche un esercito imponente di smart workers dei quali non si sa neppure se abbiano a casa un pc collegato a Internet.
Buon per loro: le pratiche burocratiche possono attendere.
Ma che logica c’è – e torno a porre la domanda di un mese fa rimasta senza risposta – nel fatto che chi sta a casa non sia pagato come fosse in Cassa integrazione, e il risparmio non sia utilizzato per sostenere e premiare chi è in prima linea?
(Tratto da www.pietroichino.it)
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino