di Jean-Philippe Derosier
Il 4 settembre la Francia celebra il 153° anniversario della Repubblica, proclamata definitivamente nel 1870. Ricorre anche il 65° anniversario del discorso con cui il generale de Gaulle presentò, nel 1958, il progetto di Costituzione, in Place de la République, a Parigi. Né la data né il luogo furono lasciati al caso per esporre la nuova norma fondamentale che i francesi adottarono in massa il successivo 28 settembre e che entrò in vigore il 4 ottobre. Essa ricorda che la nostra Repubblica è “laica, democratica e sociale” (art. 1) e che il suo motto è “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” (art. 2), come altrettante norme che devono orientare l’azione pubblica.
Così, tra poche settimane, la Costituzione della Quinta Repubblica compirà sessantacinque anni. Anche se bisognerà aspettare altri quattro mesi perché passi effettivamente alla storia come il più duraturo della nostra storia (21 febbraio 2024), questo anniversario conta: sono molte le voci che ritengono che con l’età avanzata sia tempo offrirgli una meritata pensione e passare alla Sesta Repubblica.
Nessuna Costituzione è perfetta. Altrimenti il suo modello si diffonderebbe universalmente.
Sarebbe necessario che, da un lato, queste voci trovassero un’eco presso la maggioranza dei cittadini francesi e, dall’altro, che i turiferari di una Sesta Repubblica si accordassero su cosa metterci. Tuttavia, se l’attuale Costituzione merita critiche e suscita disapprovazione, nulla garantisce che una medesima maggioranza sia d’accordo a respingerla e a costruirne una nuova.
Come ha giustamente sottolineato il compianto Guy Carcassonne, “una buona Costituzione non può essere sufficiente a rendere felice una nazione. Può bastarne una brutta per renderti infelice”. Nonostante i rimproveri in cui incorre, la Costituzione della Quinta Repubblica ha contribuito a rendere felice la nostra nazione, grazie alla sua flessibilità, superando numerose crisi (l’indipendenza dell’Algeria, la partenza del suo fondatore, la coabitazione, i massicci conflitti sociali, il terrorismo, la crisi sanitaria), consentendo l’alternanza in più occasioni, non impedendo il funzionamento di un governo di minoranza. Questa flessibilità è tuttavia legata a un pilastro fondamentale, caratteristica essenziale della Costituzione voluta dal suo mandante: un Esecutivo forte e legittimo, di cui il Presidente della Repubblica è il primo rappresentante e che costituisce il punto di equilibrio delle istituzioni.
Nessuna Costituzione è perfetta. Altrimenti il suo modello si diffonderebbe universalmente. La forza di una Costituzione capace di rendere felice una Nazione è quella di sapersi evolvere, adattarsi, modernizzarsi. La Quinta Repubblica non fa eccezione: non è perfetta, ma ha portato una stabilità necessaria e ricercata dal 1789 al 1870, pur potendo ancora modernizzarsi.
Pertanto, è abbastanza sorprendente vedere che, a volte, coloro che chiedono più democrazia, il passaggio ad una nuova Repubblica, vogliano soprattutto abolire l’elezione diretta del Capo dello Stato. Ciò sarebbe necessario perché il potere che esercita non potrebbe essergli tolto senza ridurre la legittimità di cui dispone. È tuttavia paradossale pretendere un rafforzamento della democrazia abolendo l’elezione diretta, a maggior ragione quella che ha tra i francesi un consenso plebiscitario.
Sono possibili altri modi per modernizzare la Quinta Repubblica.
In primo luogo, l’espressione civica può essere rivitalizzata. Si fa spesso riferimento al referendum, all’ampliamento della sua portata definita dall’articolo 11 della Costituzione o all’allentamento delle condizioni per un referendum di iniziativa partecipata o cittadina. Tuttavia, se il referendum ha dei pregi, presenta anche dei difetti, poiché impedisce qualsiasi deliberazione parlamentare, utile alla stesura della legge. Così, invece del referendum diretto, possiamo offrire ai cittadini nuovi diritti nell’elaborazione della legge, che sono complementari alle istituzioni rappresentative di cui non possiamo fare a meno: l’iniziativa legislativa, dovendo poi il Parlamento discutere e approvare la legge; la richiesta di ratifica tramite referendum, affinché una legge discussa in Parlamento venga infine sottoposta all’approvazione popolare; la collaborazione alla stesura della legge, attraverso emendamenti cittadini.
Poi, è auspicabile articolare meglio l’espressione dei cittadini. Il voto è il primo mezzo di espressione dei cittadini e i suoi effetti devono essere rafforzati. Un ritorno al mandato di sette anni o un divario tra il mandato presidenziale (ad esempio sei anni) e quello legislativo (quattro anni) danneggerebbe la stabilità del regime. Ma una respirazione democratica intermedia, durante un mandato presidenziale o legislativo, è essenziale. È possibile grazie alle elezioni locali. Possiamo così allineare tutte le durate dei mandati su sei anni e raggruppare tutte le elezioni locali nello stesso giorno, a metà mandato delle elezioni nazionali. Affinché queste elezioni locali abbiano un impatto reale, devono avere un effetto diretto sul Parlamento, al Senato, modernizzando il metodo di nomina dei senatori.
Infine, se il posto del Presidente della Repubblica viene preservato, egli dovrà assumere il suo ruolo e le sue funzioni davanti ai cittadini e ai loro rappresentanti. Tuttavia, la decadenza azionata dai cittadini, talvolta previsto, rappresenterebbe un rischio di fronte agli eccessi populisti che potrebbe consentire. È invece possibile una migliore articolazione dei rispettivi ruoli del Capo dello Stato e del Capo del Governo, al fine di rafforzare il secondo, pur richiedendo al primo di riferire annualmente alla rappresentanza nazionale.
Si dice spesso che l’Ottocento sia stato il secolo dei Parlamenti e il Novecento quello della giustizia costituzionale. Il 21° secolo è quello dei cittadini ed è quindi non solo utile per la nostra democrazia ma anche necessario per la sostenibilità della nostra Repubblica ripensare il loro posto al suo interno.