di Giorgio Benigni
La fine terrena di Franco Marini è stata l’ennesima occasione non sfruttata per fare il punto sulla recente storia del nostro Paese, su pregi e limiti della seconda repubblica, su quel che resta di una cultura politica che veniva chiamata cattolicesimo democratico. Lasciamo stare il Marini segretario generale della Cisl. Andiamo sulla carriera politica che comincia con un assoluto do di petto.
Elezioni politiche del 1992. Le prime con la preferenza unica. Marini è stato ministro del lavoro e si candida nel collegio del Lazio corrispondente a tutta la regione tranne la provincia di Rieti. Per la prima volta dal 1948 sulle liste elettorali non c’è il nome di Andreotti. Cossiga lo ha fatto, a sfregio, senatore a vita. Al suo posto Vittorio Sbardella, lo squalo, un ex fascista convertito sulla via dell’andreottismo e di Comunione e Liberazione. Si ingaggia una battaglia all’ultimo voto tra il “lupo marsicano” e lo “squalo” che incredibilmente vede prevalere Marini: finisce 116.139 voti a 114.916. Uno scontro tra giganti. Giganti organizzativi, intendiamoci. Un anno e mezzo dopo la DC non esisteva più.
Congresso PPI del 1997. Marini è il segretario organizzativo del PPI così come uscito dalla scissione di Rocco Buttiglione. Il segretario del partito, che ha preso uno scarso 7% alle elezioni politiche, è il latinista Gerardo Bianco, noto per ripetere in tutti i contesti come una giaculatoria: “È l’Europa, è l’Europa, ce lo chiede l’Europa, noi siamo il partito dell’Europa”. Il PPI è al governo da 7 mesi dentro la coalizione dell’Ulivo ma al suo interno si confrontano due linee: la prima è quella della scommessa sulla coalizione come soggetto politico, la seconda è quella del mantenimento dell’identità di partito e del rapporto contrattuale con il PDS di Massimo D’Alema.
Marini incarna quest’ultima, è previsto che stravinca ma toppa completamente l’intervento mentre il suo sfidante Pierluigi Castagnetti scalda la platea. Morale finisce 53 a 47 per Marini. Con lui Franceschini, De Mita, Mattarella e Rosi Bindi, ministro della sanità del governo Prodi la quale non coglie, o fa finta di non cogliere, la conseguenza politica del suo voto: l’inizio del conto alla rovescia per la fine del governo Prodi.
Elezione del presidente della Repubblica 1999. L’Italia insieme alla NATO è in guerra con la Serbia per i diritti umani dei kosovari. Finisce il settennato di Scalfaro uno dei più drammatici della storia repubblicana. Da 7 mesi a palazzo Chigi siede Massimo D’Alema dopo un logoramento durato un anno e mezzo contro la prospettiva dell’Ulivo incarnata da Prodi. Il PPI di Marini ha plaudito alla fine del governo del Professore, perché così può giocarsi in posizione di forza la trattativa per la presidenza della Repubblica. Per un sindacalista tutto è negoziato e tutto è negoziabile.
Ma la realtà è cambiata. La verità è che il PPI non ha nessuna figura credibile, con l’età e lo standing adeguato a fare il Presidente della Repubblica. Marini pensa al Presidente del Senato Nicola Mancino e un po’ anche a se stesso ma quando va a chiudere l’accordo si ritrova che i DS di Walter Veltroni lo hanno completamente giocato e hanno già fatto l’accordo con Fini e Berlusconi per Ciampi. Il re delle trattative è stato raggirato come un pivello. Ma ad essere sconfitta in quella fase è una dottrina politica: quella secondo la quale è la carica che dà il consenso e non il consenso che dà la carica. Marini avrebbe voluto la presidenza della repubblica al PPI pensando di ottenere vantaggi elettorali da quella posizione. Non aveva capito che era cambiato il mondo. Alle elezioni europee di un mese dopo, la Bonino prende l’8% l’Asinello il 7,7% il PPI il 4%.
Al Consiglio Nazionale di luglio all’EUR, rompe con il suo numero 2, Dario Franceschini accusandolo di tradimento, non lo sosterrà al congresso di Rimini di li a qualche mese. La maggioranza del 1997 quindi si spacca e Marini, che non riesce a concepire come Aldo Moro la possibilità di essere in minoranza nel partito, appoggia Castagnetti, lo sconfitto del 1997, che diventa segretario. Con Castagnetti si avvia il processo di costituzione della Margherita a cui Marini, inizialmente contrario, si adatta con molta facilità. L’intuizione e la visione politica non gli appartengono. Ma l’organizzazione si. Su quella non è secondo a nessuno.
Non parlo dell’incarico di Presidente del Consiglio a gennaio 2008 e della mancata elezione a Presidente della Repubblica nel 2013, valgono le considerazioni fatte sopra. Due tentativi velleitari destinati a perire sin dal concepimento perché privi di senso politico. Certo la carica di Presidente del Senato aveva istituzionalizzato il Lupo Marsicano, ma la Presidenza della Repubblica non è una trattativa sindacale. È una trattativa spirituale, come quella che elegge il papa dentro la Cappella Sistina. Ecco, se c’è una dimensione che Franco Marini non ha mai espresso è proprio una dimensione alta, nobile, spirituale della politica. Lui era il capo non perché indicava un orizzonte ma perché garantiva i posti.
È stato tra i primi a esercitare questa funzione, non in modo residuale ma assolutamente imprescindibile e prioritario. Parlava senza dire niente. Se lo ascoltavi, poco dopo perdevi la concentrazione. Non imparavi nulla. Se non appunto l’arte di non dire, che pure è una qualità politica, ma non può bastare da sola. Ha fatto il segretario politico ma sempre facendo sostanzialmente il segretario organizzativo. Ha espresso sempre, a parole, una linea di distinzione dai DS, come se avesse di fronte la CGIL, ma è finito spesso per svolgere un ruolo ad essi subalterno pur di non dare ragione a Prodi e soprattutto a Parisi. Doveva essere il custode della cultura politica cattolico democratica, ne è stato l’esecutore testamentario, facendo finire il PPI a fare la parte del partito dei contadini della Polonia comunista. Un partito di classe dirigente senza direzione, un poltronificio senza dignità che veniva appagato da qualche incarico mentre la politica, la grande politica, sarebbe stata fatta da altri. Nella fattispecie i DS, secondo lo schema della Quercia e dei “cespugli”.
Dal punto di vista del corpo elettorale Marini ha fatto del PPI il partito dei dipendenti pubblici sindacalizzati e del sud, il partito dei ministeri e della burocrazia, dei garantiti, non riuscendo quasi per nulla a intercettare la vitalità del mondo cattolico molto più forte venti anni fa rispetto ad ora. Marini è stato sindacalista fino alla fine: “tratto dunque sono” potrebbe essere il suo motto. Ma quando succede, perché succede, che gli altri scavalchino la trattativa, si rimane con un pugno di mosche in mano. Il bottino di una eredità politica.
Analista di politica italiana e internazionale, dottorato in diritto costituzionale italiano e comparato. Ha un’esperienza di lungo corso come consigliere politico in diverse campagne elettorali e all’interno di segreterie governative e negli uffici studi e legislativi di gruppi parlamentari. Da due anni promuove l’economia circolare e cura le relazioni istituzionali della start up Mercato Circolare.