di Antonio Preiti
Una delle definizioni più compatte della paranoia, una delle poche malattie, forse l’unica, che non si manifesti come tale, cioè come malattia, tanto che i paranoici spesso sono i più “efficienti”, è che sia una forma estrema e irrazionale di sfiducia verso gli altri. Finché resta sul piano personale, i danni e le conseguenze sono limitate, quando si manifesta al livello di massa, è micidiale.
La paranoia delle masse
Luigi Zoja ha scritto un testo meraviglioso, “Paranoia“, (Bollati Boringhieri, 2011), in cui descrive come la paranoia crei e nutra gli incubi peggiori, come per esempio il nazismo e lo stalinismo. Quando la paranoia esce dalla patologia individuale e infetta la massa assume un’intensità esplosiva e con tempi rapidissimi.
Forse siamo ancora in tempo a fermarla, a fermarci, se riusciamo a individuarne i connotati e a liberarcene prima che sia troppo tardi. Seguendo le idee di Zoja, la paranoia ha radici nella solitudine, che può essere anche di massa, ossimoro allo stesso tempo insostenibile e verissimo. Ma la psiche umana non è una scienza esatta.
La paranoia nasce da un senso di pochezza personale; dal sospetto verso gli altri; dalla sproporzione della risposta rispetto all’offesa. La paranoia si alimenta da sola, perché crea circoli chiusi. La paranoia ha una proiezione persecutoria e si nutre dell’inversione delle cause: quello che è il risultato è visto come la causa. Si nutre della follia della percezione di accerchiamento. Il tempo è il suo avversario, vuole l’immediatezza, il tempo reale, diremmo oggi. La paranoia vive di “illuminazioni interpretative” che non hanno bisogno di una dimostrazione. Vivono dell’assunto dato per dimostrato.
Scrive Luigi Zoja che “la paranoia mente essenzialmente sulla natura umana, perché nega all’avversario la qualità di uomo, allo scopo di ridurlo a colpevole. Non vuole sapere altro. Proietta ogni male sugli altri, avendo difficoltà ad assumersi la responsabilità personalmente… getta allora la morte morale sul nemico. Il nemico non deve solo essere ucciso, ma anche odiato.”
Vediamo i tratti della paranoia di massa oggi nel nostro Paese? Ognuno stabilisca da sé se questi livelli siano ancora sottostanti, o se abbiano raggiunto addirittura il loro “tipping point“, da cui non si torna indietro.
Se assumiamo che la paranoia si sia (in qualche misura) impadronita del sentimento pubblico, solo per questo possiamo cancellare ogni altra concreta responsabilità? La denuncia della paranoia assolve gli altri? Naturalmente no. La differenza tra la giusta rabbia e la paranoia, è appunto la capacità di assumersi la responsabilità, di vedere le cose come sono, con onestà intellettuale, con l’intento di uscire da questa tragedia come un paese più grande, più morale e anche più efficiente, se possibile.
La tragedia di Genova
Intorno alla tragedia di Genova stanno crescendo e sedimentando contestazioni furiose, radicali e “morali” al capitalismo, al profitto, fino quasi a toccare qualunque impresa che sia privata, come se lo stato fosse perfetto, anzi sacro.
È curioso, incredibile anzi, che gli stessi che vorrebbero nazionalizzare tutto, non si accorgano che nella vicenda di Genova proprio lo Stato non ha esercitato i suoi poteri di controllo, inclusa la stipula di una concessione equilibrata, e non così incredibilmente favorevole al concessionario. Lo stesso Stato, che non è capace di fare buone gare d’appalto, che non è capace di controllare, che non è capace di dettare le condizioni delle concessioni, poi, quasi per magia, dovrebbe diventare un gestore straordinario. È possibile?
Se la Società Autostrade ha avuto condizioni di particolare favore, gliele ha concesse “lo Stato”; se gli investimenti sono stati inferiori a quelli stabiliti, lo sono stati grazie “allo Stato”; se gli incrementi dei pedaggi sono stati superiori all’inflazione, sono stati approvati dallo “Stato”. Perché “lo Stato” dovrebbe allora addirittura spogliarsi di tutte le sue incapacità, una volta che diventasse gestore? Tutti sanno che l’efficienza, e forse anche la moralità, si raggiungono invece attraverso un conflitto tra interessi opposti.
Sul mercato privato i consumatori domandano beni migliori e a un miglior prezzo: questo aumenta la qualità complessiva della produzione; nelle concessioni pubbliche sarebbe bene che qualunque azienda, senza creare monopoli privati, possa esercitare un servizio, all’unica condizione di rispettare i parametri stabiliti dal pubblico; nel caso dei monopoli naturali (com’è quello delle autostrade) dev’essere il publico, a nome della collettività, a stabilire e far rispettare le regole ed esercitare tutti i controlli. Cosa che, incredibilmente, non è stata fatta.
Lo Stato? Il peggior gestore possibile…
Qual è l’alternativa? Lo Stato che detta le regole, controlla ed esercita il servizio senza nessun soggetto che in modo costante, efficace e legale gli faccia da contrappeso in nome della collettività? I giornali (e i social media) ogni giorno sono pieni di critiche per come sono gestite le aziende pubbliche, nominati i loro dirigenti e persino per come sono scelti i primari negli ospedali, e poi pensiamo che il pubblico sia il miglior gestore assoluto?
Pensiamo all’ATAC o all’ANAS, o alla Salerno – Reggio Calabria. Se l’Italia va male, possiamo pensare che non dipenda anche dal fatto che il pubblico gestisce, in maniera diretta o indiretta, qualcosa come il 75% di tutta l’economia nazionale?
Pensiamo che arrivare al 90 % migliorerà le cose? Abbiamo invece la prova provata che tutte le economie totalmente statali (come l’Unione Sovietica o i regimi sudamericani che nazionalizzano) sono totalmente fallite. Lo stato ha un ruolo formidabile, essenziale, centrale di regolatore del sistema e di esercizio del controllo a nome del popolo e deve imparare a esercitarlo con durezza, equilibrio e oggettività, non fare ogni cosa e esercitare tutti i ruoli.
Si risponde che non è possibile, perché poi i governi cedono alle lobby (anche quello attuale, s’immagina) e non esercitano nessun controllo e non fanno osservare le regole. È esattamente un caso di profonda e irrazionale sfiducia verso gli altri. Si domanda, ma la sfiducia profonda e irrazionale verso gli altri, si cancella se prende il nome di “Stato”?
È lo stato un’entità astratta, non è fatto anch’esso dagli “altri”? Abbiamo bisogno di più Stato? o piuttosto di una maggiore serietà, di una responsabilità più certa e di una migliore moralità da parte di tutti, ciascuno nel suo ruolo?
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it