di Pietro Ichino
Nonostante la recessione incipiente, le imprese incontrano difficoltà per il reperimento del personale nel 45% dei casi
La terza pagina del Sole 24 Ore del 15 ottobre scorso si apriva con questo titolo: Assunzioni giù del 26,5%; subito sotto compariva quest’altro titolo apparentemente contraddittorio rispetto al primo: In un caso su due le imprese non trovano le giuste competenze.
La contraddizione è solo apparente: la grave difficoltà delle imprese nel reperire le persone qualificate e specializzate di cui hanno bisogno non si manifesta soltanto nei periodi di congiuntura favorevole, ma anche in quelli di rallentamento o addirittura di recessione.
Oggi come due anni fa, quando eravamo nella fase più buia della recessione determinata dalla pandemia, persiste l’evidenza di veri e propri enormi “giacimenti occupazionali”, misurabili in molte centinaia di migliaia di posti di lavoro, che restano inutilizzati.
È la conseguenza di un sistema della formazione professionale del quale nessuno controlla e misura in modo sistematico l’efficacia. Per farlo il modo c’è (è previsto dal Jobs Act, articoli 13-16 del d.lgs. n. 150/2015): istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione.
Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio.
Ma questa previsione legislativa è stata totalmente disattesa per un’intera legislatura: non solo perché per molti politici, a sinistra e a destra, il Jobs Act è come il fumo negli occhi, ma anche, più specificamente, perché una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico; e a troppi politici sta più a cuore la stabilità degli addetti a questi corsi che l’interesse della generalità delle persone che vivono del proprio lavoro, oltre che delle imprese.
Per risolvere il problema occorre mettere al primo posto l’interesse degli utenti, imprese e lavoratori, invece di subordinarlo a quello degli addetti al servizio.
Editoriale telegrafico pubblicato il 30 ottobre 2022 sui quotidiani Gazzetta di Parma, l’Adige e Alto Adige
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino