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Giustizia, non serve una commissione d’inchiesta ma la riforma

Enrico Morando martedì 11 Maggio 2021
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Intervista a Enrico Morando a cura di Umberto De Giovannangeli*

 

Lo tsunami che si è abbattuto sulla magistratura e i silenzi della politica. Il Riformista ne discute con Enrico Morando, leader dell’area liberal del Pd, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già vice ministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni. Un “riformista” dem doc.

 

Toghe di nuovo nella bufera, stavolta per il caso della “Loggia Ungheria”. È di queste ore la notizia che il pm Storari è indagato dalla Procura di Roma per aver consegnato a Davigo i verbali secretati di Amara. Eppure la politica, salvo rare eccezioni, preferisce parlare d’altro. Perché questa tremebonda reticenza?

Purtroppo credo che sia il frutto di una lunga vicenda di subalternità e di dimissioni della politica dal suo ruolo, a proposito del tema giustizia. Una vicenda che ha le sue origini con l’89, con la fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti. Nello schema pre-’89 tutto era organizzato attorno alla contrapposizione Est-Ovest. E quindi anche gli organi di controllo, in primis la Magistratura, erano inseriti all’interno di questo contesto e ne tenevano conto, eccome.

Con l’89 il sistema politico si sblocca. Molti dicono che il sistema politico italiano è stato distrutto dall’esplosione di Tangentopoli. Io ho sempre pensato che questa sia una sciocchezza. E non perché Tangentopoli non abbia avuto un ruolo nel determinare la crisi definitiva dei grandi partiti, ma perché è tangentopoli che viene resa possibile dal collasso dell’assetto derivante dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti. L’esplosione di Tangentopoli è un effetto, non una causa.

In quel momento si determina una situazione nella quale, a sinistra, prevale l’idea di chi pensa, in buona sostanza, che con l’esplodere di Tangentopoli e il diffondersi delle inchieste sulla politica da parte della magistratura requirente, bastava stare fermi e gli avversari sarebbero stati sconfitti, a vantaggio della sinistra, dall’iniziativa, che finalmente poteva esplicitarsi liberamente, dei poteri di controllo.

Questo ha determinato una situazione nella quale una parte dei magistrati, in particolare quella più dinamica e più attiva della magistratura requirente, ha ritenuto di dover svolgere una funzione di supplenza di una politica che si ritirava dalle sue funzioni, che perdeva potere. A dimostrazione c’è il fatto che da quel momento, la parte più attiva della magistratura requirente comincia ad usare una categoria propria della politica…

 

Vale a dire?

Il consenso. Come è noto, il consenso è una categoria della politica democratica, e in nessun modo può essere una categoria dei poteri di controllo, i quali sono tenuti, esattamente, a svolgere in perfetta autonomia funzioni, per l’appunto, di controllo. Che abbiano nell’esercizio di questa funzione, il consenso della maggioranza dei cittadini alle loro iniziative o anche se non ce l’avessero, quelle iniziative devono svilupparsi comunque. Il ricorso alla categoria del consenso, la gente ci appoggia, sta con noi, è la dimostrazione che questa ambizione di esercizio di un’attività di supplenza non era solo un fatto oggettivo. Quando la politica italiana ha tentato di reagire, lo ha fatto in maniera scorretta.

 

Perché scorretta?

Perché l’ha fatto sulla base dell’ambizione di Berlusconi di ritrovare un equilibrio attraverso la subordinazione dei poteri di controllo. Questo ha finito per incrementare a sinistra l’idea che bisogna limitarsi, sostanzialmente, ad accettare lo sviluppo delle iniziative della magistratura, rinunciando all’esercizio della funzione della politica. Quella tipica: quella di fare le leggi, di fare riforme, anche in materia di giustizia. Certe componenti della sinistra, quelle riformiste, liberali, garantiste, di questa situazione se ne accorsero e la denunciarono in maniera aperta, fin dall’inizio.

A metà degli anni ’90, primo firmatario Emanuele Macaluso, ad un congresso del Partito democratico della sinistra, segretario Massimo D’Alema, presentammo un emendamento, che ottenne un certo successo nel congresso stesso, anche se non la maggioranza dei voti; emendamento circondato dall’ostilità generale del resto del partito, sulla obbligatorietà dell’azione disciplinare. Mi piace ricordarlo perché è uno dei tanti contributi che Macaluso ha dato nel cercare di affrontare il tema, cruciale, della ricostruzione di un equilibrio tra politica e magistratura.

 

In cosa consisteva questa proposta?

Il discorso che facevamo era molto semplice: voi sostenete che il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale è indiscutibile. Ma se così è, anche alla luce della vittoria del “Sì” al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, perché non prevedere l’obbligatorietà dell’azione disciplinare, nel senso che in presenza di un esposto nei confronti di un magistrato per una presunta iniziativa che abbia bisogno, secondo chi quell’esposto presenta, di una iniziativa disciplinare, bene, si apra un fascicolo, esattamente come si fa quando il magistrato requirente richiede una qualche notizia di reato.

Aprire un fascicolo non comporta, automaticamente, portare avanti l’inchiesta, ma può anche voler dire, in maniera trasparente, decidere che l’inchiesta non debba procedere. Rendere trasparente il processo: questo era l’intento del nostro emendamento. C’è un cittadino che fa un esposto, c’è un soggetto il quale è incaricato di rispondere a quell’esposto. Trasparenza negli atti e nei comportamenti: è l’essenza di una democrazia liberale, di uno Stato di diritto.

Ora sembra che si apra un’azione disciplinare nei confronti del sostituto procuratore Storari, che invece di fare un esposto formale al Csm, che come è noto è uno dei soggetti che può sviluppare l’iniziativa disciplinare, si reca da un amico, membro del Csm, Piercamillo Davigo, per portarlo a conoscenza, secondo lui di una inadempienza da parte del capo dell’ufficio della Procura milanese che non favoriva lo sviluppo dell’iniziativa nei confronti del caso Loggia Ungheria, e addirittura gli consegna degli atti coperti dal segreto. Ma se l’iniziativa disciplinare non è obbligata in casi come questo, che cosa dovrebbe accadere di più grave per farla scattare? Su questa vicenda ci sono due versioni: una è quella del Procuratore generale di Cassazione, altro soggetto titolare dell’iniziativa disciplinare, il quale mi pare ipotizzi che si sia trattato di una gravissima violazione dei doveri di un magistrato, perché il magistrato doveva fare un esposto formale, trasparente, per questa iniziativa.

Ma c’è anche la versione di Davigo che, anche qui riassumo sostanzialmente, dice che Storari per tutelarsi ha informato una persona che conosceva, cioè Davigo, il quale ha ritenuto di informare chi di dovere, e cioè i vari soggetti con cui Davigo avrebbe parlato. Ora questa differenza di valutazioni dimostra che il problema che abbiamo posto tanti anni fa con Macaluso, è vero ed è perfettamente irrisolto. Se è come dice Salvi, il magistrato che ha fatto una cosa del genere, altro che tutelarsi! Ha commesso una gravissima violazione di legge e come minimo ci vuole l’iniziativa disciplinare e, forse, c’è anche un problema di violazione dell’articolo 684 del codice penale di atti secretati relativi a un procedimento penale.

Ma la cosa veramente chiara, e inquietante, è che c’è chi dice che ha ragione Davigo. Ma se ha ragione lui, allora siamo in presenza di qualcosa di enorme, cioè di una specie di gestione privatistica della giustizia. Il che non farebbe che riconfermare una situazione di pressoché sostanziale irresponsabilità. Se posso violare impunemente anche articoli del codice penale, purché lo faccio all’interno della “categoria”, e lo faccio pur essendo un magistrato, beh, è del tutto evidente che siamo in presenza di qualcosa di estrema gravità. Non riconoscerlo, da parte della politica, è più che un errore di sottovalutazione. È la sanzione di una dismissione di responsabilità che non ha scusanti.

 

Qual è la conclusione di questo ragionamento, dal punto di vista della politica?

Bisogna che la politica faccia il suo mestiere. Cioè, faccia le leggi. Adesso vedo che siamo tutti impegnati a discutere se fare o non fare una commissione d’indagine sulle vicende denunciate dal libro di Palamara. Io credo che serva tutto meno una commissione d’indagine. Serve fare delle norme. Perché il Parlamento, dove si fa la politica, ha il potere d’iniziativa legislativa e l’iniziativa legislativa riguarda anche il tema della giustizia. Non è che il tema della giustizia e dell’organizzazione della magistratura sia estraneo all’attività legislativa.

I fatti di queste ore dimostrano che la situazione ha continuato a degenerare, anche grazie alla costruzione di un legame malsano tra sistema dei media e magistratura requirente, portando la situazione italiana ad avere una diffusa negazione di giustizia nei confronti dei cittadini. Di questo si tratta. C’è la dimostrazione che i meccanismi fondamentali non funzionano, perché c’è una sostanziale irresponsabilità e quindi c’è bisogno di un complesso di riforme, altro che una commissione d’indagine. Nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr) presentato da Draghi c’è un capitolo importante relativo alla giustizia. Non è esaustivo, ma è un buon inizio su cui lavorare.

Lavorare sui tempi, insopportabili, dei processi, sui meccanismi di valutazione, oggi di autovalutazione, dei magistrati, su una riforma non correntizia del Csm, sull’introduzione di figure di magistrati dotati di competenze manageriali, con degli effettivi poteri d’intervento sull’organizzazione dell’ufficio giudiziario stesso. È la figura del “manager” del tribunale, di quello, cioè che si occupa di organizzazione del lavoro e di valutazione del lavoro.

 

E in tutto questo, il Pd?
Condividiamo le proposte contenute nel Pnrr e siamo impegnati nel realizzarle nel più breve tempo possibile. Ma in prospettiva, dobbiamo pensare ad una soluzione più organica. Per quando governeremo noi, con il nostro governo, dopo le elezioni, vogliamo l’introduzione del manager del tribunale. È solo un esempio. Un altro esempio: non è che dobbiamo metterci oggi a litigare sulla separazione delle carriere, votiamo oggi quello che c’è scritto nel piano Cartabia, ma per il dopo, per il Pd c’è la separazione delle carriere tra giudicante e requirente, che è un’altra riforma sempre più necessaria.

 

*Tratta da Il Riformista, 6 maggio 2021

 

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