di Ranieri Bizzarri
Nel centrosinistra italiano ci si richiama spesso ad un approccio metodologico bipolare alla dialettica politica.
Questo approccio individua una prima linea di forte frattura profonda tra destra e sinistra, ricomponibile a livello parlamentare solo in casi sporadici. Una seconda linea di frattura, ovviamente meno profonda, è identificata nel centrosinistra stesso.
Approccio riformista e approccio radicale
La si dipinge in molti modi, ma è riconducibile alla divisione tra l’approccio più riformista e quello più radicale. La differenza sostanziale sta nella diversa concezione del rapporto tra crescita e redistribuzione della ricchezza. Per i riformisti, senza crescita non vi è redistribuzione, ma si ammette che la crescita senza redistribuzione possa creare tensioni sociali che minano la base stessa della crescita. Per i radicali, il grado di redistribuzione non è un fattore da determinare empiricamente in base al contesto economico, ma è uno dei fattori alla base del contratto sociale ed ha quindi un certo grado di indipendenza dalla crescita stessa.
I due approcci non sono mai nettamente distinti, e si considera vincente la capacità di oscillare tra queste due visioni a seconda del contesto sociale e politico del momento. Insomma, i seguaci di Blair o di Corbyn somigliano a due calciatori, di ruolo attaccanti, uno rapido e brevilineo, l’altro potente ed alto, da far giocare alternativamente a seconda del tipo di difesa avversaria e del valore della partita. Il PD nasce connaturato a questa visione, che ne prevede la contendibilità e la scarsa efficacia a lungo termine di scissioni lungo questa frattura politica.
Sinceramente, questo schema di “liberalismo inclusivo” non mi ha mai convinto troppo, per una serie di ragioni che non sto ad elencare, ma che sono riassumibili nell’aspetto “etico” invocato dalla sinistra radicale nella sua azione politica. Non penso certo che i riformisti siano privi di un’etica pubblica; ma in un approccio liberale di sinistra lo sforzo di emancipazione dei cittadini dal bisogno è visto come un processo su base empirica più che l’implementazione di principi sociali assoluti.
Tuttavia, questo schema riformisti/radicali può anche funzionare, a patto che i radicali non trasformino il loro afflato etico in un rigetto dei principi fondanti della “società aperta”, mutuando a sinistra alcune delle peggiori forme di illiberalismo e populismo della destra. Un recente editoriale dell’Economist sulla sinistra illiberale ha ben rappresentato questo fenomeno in chiave politica e sociale.
Qui vorrei discutere un fenomeno correlato, a mio avviso ancora più pericoloso: il rigetto o la distorsione di una delle premesse epistemiche della società aperta, il metodo e il valore della scienza.
Contro la scienza
Partiamo dall’attualità: in meno di 12 mesi sono stati sviluppati 4 vaccini di grande efficacia contro SARS-CoV-2, il virus che genera la pandemia COVID19. Questo straordinario successo non è figlio del caso, ma esemplifica con chiarezza il rapporto strettissimo tra scienza e la società aperta di matrice liberaldemocratica. Un’avventura della conoscenza, innestata nella rete della disseminazione del sapere, è alla base di un progresso tecnologico che libera milioni di persone dal bisogno e dalla sofferenza; l’economia di mercato e la difesa della proprietà intellettuale, oltre che materiale, mette a disposizione i capitali perché questo progresso avvenga. A Cuba e in Russia, due società che sono chiuse per motivi diversi, la generazione di un vaccino capace di “liberare” dalla sofferenza tante persone, è fallita.
La scienza moderna, coniugando pensiero contro-intuitivo, anti-autoritarismo, eguaglianza tra tutti coloro che vi partecipano, valorizzazione della competenza e dello scambio, e propugnando l’etica dell’oggettività di fronte ai problemi, è stata il catalizzatore della stato costituzionale, prima, e della liberaldemocrazia, poi. I frutti tecnologici e della conoscenza scientifica sono poi potenti fattori di progresso e di promozione della liberaldemocrazia e del mercato.
Colpire la scienza significa mirare al cuore della società aperta, e gli antiliberali di destra e sinistra lo fanno in tre modi principali:
1- La “relativizzazione” dei risultati scientifici
Ogni teoria scientifica può, naturalmente, essere falsificata; è un concetto intrinseco al metodo scientifico. Questo non significa che i risultati attuali abbiano valore relativo, ma solo che ulteriori conoscenze possono, in linea di principio, modificare l’interpretazione dei fatti osservati. Gli antiliberali usano furbescamente l’impossibilità per la scienza di presentare verità immutabili nel tempo come una malleva ad adottare sempre il principio del minimo rischio nelle implicazioni tecnologiche e bioetiche, anche quando questo non è giustificato da alcun fatto noto, qualunque sia la sua interpretazione attuale o futura.
Questo delegittima la conoscenza scientifica e dipinge al contempo la società liberaldemocratica come un sistema marcio guidato da improbabili elite economiche dedite all’inganno e all’arricchimento. Ma la potenziale falsificabilità di un modello teorico non corrisponde alla falsificabilità dei fatti: il sole sorge a est sia che lo si interpreti col modello tolemaico o copernicano; e rinunciare a mettere un parasole alla finestra di una camera volta ad est, perché non si sa mai che un giorno il sole possa sorgere ad ovest e dunque il rischio non merita la spesa, non è molto conveniente per il proprio riposo. Le sofferenze visibili del COVID rendono (per ora) le frange no-vax minoritarie (sebbene rumorose), ma questo approccio relativistico – con risultati molto più pervasivi – è stato adottato – specie a sinistra – per gli OGM, gli effetti del riscaldamento globale, le politiche energetiche.
2- Il discredito della competizione delle idee
La scienza è basata sulla competizione delle idee, e la sua “mano invisibile” è l’aderenza delle interpretazioni ai risultati sperimentali. Vi è anche una competizione ad arrivare per primi ad un certo risultato, motivabile – come tutte le avventure della mente umana – attraverso un misto di curiosità, ambizione personale e valore sociale del proprio operato. E’ pertanto inevitabile ed essenziale che la buona scienza debba prevedere una certa diseguaglianza all’interno della sua comunità. I vaccini antiCovid sono stati sviluppati in centri come Oxford, NIH, Harvard Medical School, che attraggono le menti migliori. Naturalmente i risultati degli scienziati che lavorano in queste realtà si basa anche su ciò che è stato ottenuto in realtà accademiche o istituti di ricerca meno blasonati. Ogni tassello conta.
Ma contestare la natura meritocratica della ricerca scientifica secondo la bizzarra idea che siano lo specchio di un non meglio precisato neoliberismo economico, produce solo un generale rallentamento del progresso generale. E’ un obiettivo molto chiaro degli antiliberali: dimostrare che la “distruzione creatrice” delle idee è alla base di quella della ricchezza, per riportare la società ad una forma chiusa sotto una rassicurante legislazione autoritaria mascherata da egualitarismo su base etica.
3- L’utilizzo di concetti parascientifici per giustificare politiche basate su un approccio etico
E’ stata la via maestra dei fascismi del ‘900, basati su interpretazioni deviate di concetti scientifici legati alla razza o all’evoluzione biologica. Ma adesso, questo approccio è diventato assai più sottile, dato che si cerca di dare piena giustificazione scientifica a concetti che appaiono in linea con i presunti obblighi morali del XXI secolo. Tirare la giacca alla scienza in dibattiti come quelli relativi all’identità di genere, è insensato. La percezione psicologica non può fare a meno di un sostrato neurobiologico, ovviamente; ma nessuno scienziato si spingerebbe ad un determinismo secondo cui un ladro ha scritto nei propri circuiti neuronali la propensione al furto. Le scelte che attengono alla dinamica delle libertà personali, e la loro ricaduta sociale, sono scelte prettamente politiche. La pretesa della cancel culture di coniugare moralità con solidità scientifica è prettamente orwelliana.
Difendere la scienza
In conclusione, difendere la scienza significa difendere la società aperta, e la sua pragmatica – e al contempo umile – via al progresso. Purtroppo, nemmeno tutti gli scienziati ne sono consapevoli. La pandemia di COVID19 ha forse avuto un merito, come tutti i momenti di crisi: riportare al centro del dibattito i valori in cui crediamo e che hanno reso molta parte dell’occidente una società libera, pacifica e democratica. Il liberalismo riformista non deve mai dimenticarlo.
Salvini, Meloni, Trump, Orban sono nemici facilmente identificabili. Ma l’attacco ai nostri valori viene anche da alcuni nostri compagni di viaggio che, spesso in modo esplicito, delegittimano la scienza, architrave della società aperta. Non li considererei parte del liberalismo, né mi fiderei troppo di considerarli utili alleati nella lotta elettorale del bene contro il male, un evergreen del bipolarismo italiano (a guida radicale).
Laureato e dottorato in Chimica, è Professore associato di Biochimica all’Università di Pisa. E’ stato Research Fellow in USA, Francia e Olanda. Si occupa di processi biochimici alla base dello sviluppo dei tumori. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale