di Mario Lavia
Nel Quaderno 15 (Passato e presente. Storia dei 45 Cavalieri ungheresi), Antonio Gramsci rievoca un episodio della lontana guerra dei Trent’anni, quando un piccolissimo nucleo di cavalieri riuscì ad assoggettare le Fiandre per più di 6 mesi: come fu possibile che un gruppo di 45 persone s’impadronisse di uno Stato? La cosa diventa possibile quando “ciò che si chiamava massa è stata polverizzata in tanti atomi senza volontà e orientamento”.
L’atomizzazione della sinistra (e i 45 cavalieri ungheresi)
Rileggendo questo e altri passi dei Quaderni dal carcere si può notare come diverse intuizioni del pensatore comunista paiono sgorgare dalla lettura della realtà politica e “ideologica” dell’Italia di oggi. E in particolare della situazione della sinistra. La quale, senza forse nemmeno accorgersene, si trova dinanzi a un passaggio cruciale, per molti aspetti nuovo, della sua vicenda e del suo rapporto con la storia italiana. Chiamata ad una strana prova di governo, e subito divisasi non sul governo (modello Psiup) né su cambi di nome (modello Rifondazione) ma su qualcosa di più indefinito: giusto respingere teorie “psicanalitiche” sul personaggio-Renzi che però sono da lui stesso alimentate (“Ero un intruso”).
Ma per riprendere la frase di Gramsci, si assiste in effetti ad una sorta di “atomizzazione” della sinistra (qui non serve distinguerla dal centrosinistra) e non solo nel senso che siamo in presenza dell’ennesima scissione: l’impressione cioè è tutt’altro che politicista, con riferimento alla frantumazione dei soggetti politici, quanto di un fatto sostanziale, vale a dire di una sorta di spaesamento generale persino all’interno dei vari gruppi e sottogruppi.
Tanto che quotidianamente vediamo riposizionamenti e passaggi da una comunità all’altra, e non si tratta solo di riaccasamenti di convenienza personale ma di un disorientamento che ricorda quello che connotò il movimento operaio fra le due guerre. Ecco perché il rischio a cui la sinistra è perennemente esposta è quella di fare la fine delle Fiandre occupate da soli 45 cavalieri ungheresi: perché il “popolo” che per decenni ha seguito nel bene e nel male i partiti della sinistra non sa bene che strada imboccare, affidandosi pressoché esclusivamente alla cieca fiducia nelle ragioni tradizionali e in fondo sempre valide, la giustizia sociale, la tolleranza, la democrazia.
Ma le “nuove ragioni” stentano a venire fuori, malgrado ormai oltre un decennio di incubazione e poi di storia reale di quel Partito democratico che aveva l’ambizione di riassumere in sé il vecchio e il nuovo, finendo spesso per dannare la memoria del vecchio senza saper progettare il nuovo.
Il Pd e l’abbandono della vocazione maggioritaria
In questo senso non hanno tutti i torti, pur nella forzatura polemica, Alberto De Bernardi e Mario Rodriguez che su Libertà Uguale scrivono sullo stato attuale del Pd: “Ci si scontra contro l’aumento della complessità, delle specializzazioni funzionali, della necessità di una visione poliarchica, di una politica che accetti e comprenda le delimitazioni dei propri ambiti di intervento. Ed in assenza di un pensiero forte che possa tener insieme la complessità delle componenti quello che può uscire è solo il pantano, la mediazione snervante, i minimi comun denominatori che all’esterno appariranno molto probabilmente solo intese di potere fatte all’insegna del simulacro dell’unità”.
Insomma, il cortocircuito scaturisce dall’abbandono dell’idea di un partito degli elettori, “contendibile”, con il ritorno dello scettro in mano al leader di professione, dentro uno spirito “consociativo” fra le correnti in grado di imballare i meccanismi decisionali (la “narcosi” di cui si sta parlando a proposito di una asserita subalternità al M5s). Per i due autori, quindi, il Pd attuale è completamente diverso, anzi lontano, dal Pd del Lingotto e molto più simile a un partito tradizionale: “Alcuni dei temi fondativi del Pd del Lingotto e di Orvieto – affermano De Bernardi e Rodriguez – non sono più riproponibili all’interno dello ‘spazio pd’ perché la ‘mozione vincente’, la nuova maggioranza interna al Pd, intende superarli progettando un nuovo partito orgogliosamente di sinistra della spesa pubblica, della consociazione con i corpi intermedi corporativi, del meridionalismo novecentesco, proporziona-lista e conservatore dal punto di vista costituzionale. Affermare che si tratti di un ritorno ai Ds con l’integrazione delle residuali forze del dossettismo democristiano, forse è eccessivo, ma indubbiamente nella testa di Zingaretti e dei suoi consiglieri vi è il progetto della creazione di un soggetto politico assai distante dal Pd”.
Certamente la scelta, soprattutto d’impronta franceschiniana, di un ritorno al proporzionale va nella direzione di un abbandono di una vocazione maggioritaria non genericamente intesa, cioè in un quadro bipolare e tendenzialmente bipartitico, con la conseguenza di forgiare un partito culturalmente più monocorde e politicamente meno pluralista, nella convinzione di poter appaltare a altri la rappresentanza politica di nuove domande e esigenze diverse. Se a questo aggiungiamo la fine della coincidenza fra la figura di segretario con quella di candidato premier la “restaurazione” può dirsi completa.
Ma è pur vero che la forza delle cose impone al Pd di Zingaretti di prendere atto dei nuovi termini della situazione politica. Li conosciamo, gli obiettivi. Sbarrare la strada a Salvini. Rompere l’isolamento internazionale. Far ripartire l’economia. Recuperare dignità (ed efficacia) sull’immigrazione. Per ottenere tutto questo si poteva reinventare un Ulivo 2.0 e andare alla battaglia elettorale. Si sa com’è andata, si è scelta la strada di “addomesticare” i grillini (il nuovo “arco costituzionale” di cui parlò Franceschini) e ora siamo qui tutti a chiederci se la cosa potrà funzionare. Ma com’è noto l’idea fu di Renzi, e di questa idea lui dovrà portare la responsabilità principale, nel bene come nel male.
Non è chiaro come Renzi veda il dopo
E non è chiaro infine come Renzi veda il “dopo”: perché non è finora comprensibile se egli intenda l’intesa con il M5S come un’alleanza tattica o come un orizzonte strategico in vista, addirittura, di una ricostruzione in senso bipolare del sistema politico, ricostruzione paradossalmente incubata da una fase a mentalità e struttura proporzionalistiche. Al Foglio ha detto che si sta insieme fino alle elezioni del 2023, poi “una stretta di mano” e ognuno per sé: ma nemmeno lui è in grado di gettare lo sguardo più in là. In definitiva, la Scelta con la “s” maiuscola il leader di Italia Viva non riesce a compierla. Se ricostruire un moderno centrosinistra o considerare ormai altre strade che al massimo potranno – ma non è detto – incrociarsi con quelle di una sinistra trascinata da una inesorabile risacca tradizionale. Inesorabile anche per la privazione di un leader come lui. In altri termini: se il posizionamento di Iv è perfetto, cosa si intenda fare in concreto non si sa.
In questa inedita situazione al tempo stesso di stallo e di movimento la situazione italiana vede moltiplicarsi i fenomeni che sempre Gramsci definiva “morbosi”, a partire dal neotrasformismo 2.0 che volenti o nolenti connota il governo Conte bis, tipici di una fase di “assedio reciproco” delle parti in lotta, nessuna delle quali riesce a fare egemonia, cioè a fare Storia. La cosa, per la sinistra, rischia di diventare imbarazzante e alla lunga foriera di nuovi disastri, come sempre avviene nella vicenda italiana quando le forza progressive si atomizzano e non trovano risposte unitarie, popolari e nazionali. Vale soprattutto per il partito più grande, il Partito democratico, che rischia di diventare come le Fiandre gramsciane. Ma vale anche per i “45 cavalieri renziani”. In campo oggi ci sono due debolezze, altro che lotta per l’egemonia.
Giornalista. È stato vicedirettore di Europa e di Democratica