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di Luigi Marattin*

 

Signor presidente, signor presidente del Consiglio, onorevoli colleghi. Signor presidente del Consiglio, ho solo due considerazioni da farle nell’augurarle comunque buon lavoro, a lei al suo governo. La prima è sulla flat tax. La flat tax è stata l’architrave del consenso della maggioranza che oggi chiede la fiducia a quest’aula, soprattutto l’architrave del consenso in una zona del Paese, quella più produttiva. Lei, signor presidente del Consiglio, ieri, sulla flat tax, nel suo discorso ha affermato: “Introdurremo la flat tax, ovvero una riforma fiscale caratterizzata dall’introduzione di aliquote fisse”.

 

Che cos’è la flat tax per il governo gialloverde?

Le vorrei chiedere, presidente – e avrei piacere se mi rispondesse poi nella sua replica –, che cosa esattamente questa frase significa. Non vorrei stessimo speculando su una delle ambiguità più divertenti della nostra lingua, cioè la parola ovvero. Perché se “ovvero” significa “cioè”, qui c’è un errore chiave: “flat tax, cioè l’introduzione di aliquote fisse”, è una contraddizione in termini. Flat tax è un’aliquota, non due. Se invece “ovvero”, come nella tradizione giuridica – lei è un insigne giurista e forse intendeva quello –, significa “oppure”, allora c’è qualcosa che capisco ancor meno, perché dire introdurremo un’aliquota unica oppure un sistema di aliquote fisse mi fa chiedere: ma che cosa esattamente vuol dire aliquote fisse e quando mai le aliquote non sono state fisse, quando mai le aliquote si sono mosse?

Adesso abbiamo un sistema a cinque aliquote – vado a memoria, spero di non fare una figuraccia –: 23, 27, 38, 41 e 43, che sono fisse. Se intendete ridurle chiamate le cose con il loro nome, perché qui credo che stiamo giocando un po’ troppo con le parole, stiamo giocando con le parole su una questione che – ripeto – è stata l’architrave del vostro legittimo e sacrosanto consenso popolare. Qualche giorno fa io ho sentito dire che la flat tax inizia dalle imprese. Le imprese di questo paese, le società di capitali, sono sottoposte a flat tax dal 1973.

Allora ho pensato: ma forse ci si riferisce alle società di persone, alle ditte individuali. Se io lascio gli utili in azienda come tassazione di impresa forse quella diventa flat tax. Ma da quest’anno, da quest’anno d’imposta (poi ovviamente la regolazione avviene nel 2019), pure quella c’è già: si chiama Ire, fu introdotta dal governo Renzi e rimandata all’anno successivo dal governo Gentiloni. Allora, volevo andare in fondo a questa storia ho pensato: forse, violentando un po’ la terminologia, intendono dire le ditte, le società individuali che non tengono gli utili in azienda e li distribuiscono ai soci. Non sarebbe tassazione sull’impresa, ma forse volevano dire quella. Stamattina sono andato a controllare quanta parte dei contribuenti Irpef rientra in questa fattispecie: il 3,4 per cento dei contribuenti. E questa forse è la flat tax sulle imprese dalla quale volete iniziare.

Se invece volete iniziare dalla flat tax o fare la flat tax sulle famiglie – a parte, ripeto, che la sua frase presidente davvero non la capisco – ho letto una simulazione fatta da Il Sole 24 Ore, facilmente replicabile, che dice che se si passa a un sistema a due aliquote – che non è flat – 15 e 20 per cento, noi abbiamo una serie di benefici sui contribuenti che vanno dallo zero per cento fino al venti per cento del proprio reddito disponibile. Questo è il vantaggio, il guadagno che avremmo dalla introduzione di questo sistema. Perfetto se non fosse che i contribuenti più poveri prendono lo zero e quelli più ricchi il venti. Allora, io non ho capito che senso ha fare una riforma fiscale che distribuisce vantaggi in senso esattamente opposto a quello che sarebbe non solo un sentimento di equità sociale, ma anche una propensione marginale al consumo e, quindi, un maggiore stimolo verso l’economia.

 

Il problema delle coperture

Inoltre non ho capito le coperture. Presidente, lei l’ha detto nella sua relazione, l’architrave di ogni discorso di politica economica che questa maggioranza fa è: ridurremo il debito, creando ricchezza. Sono anni che dite che intendete ridurre il debito spendendo di più. Attenzione, lo dico a lei e al professor Tria, ministro dell’Economia che saluto e a cui auguro buon lavoro e che sicuramente lo sa benissimo: non esiste alcun Paese al mondo in cui i moltiplicatori – cioè spendo un euro e diventano 5, 6, 7 – sono di queste dimensione. Non ne esiste uno, almeno che non sia in recessione. Perché anche il Fondo Monetario Internazionale, recentemente, si è accorto che quando siamo in recessione i moltiplicatori sono più alti. Ma noi non siamo in recessione, perché abbiamo tirato fuori noi questo paese dalla recessione.

Esiste, invero, un caso in cui questa strategia ha portato il paese a gambe all’aria, ed è il caso di un paese dall’altra parte del mare che si chiama Grecia.

 

Imprese e lavoro

Infine sulle imprese, presidente, lei non ha detto una sola parola. In questo Paese abbiamo il 25 per cento di imprese che stanno competendo sul mercato internazionale, un altro 25 per cento che non ce la fa, e un 50 per cento in mezzo, che può cadere da una parte all’altra e si aspetta risposte sugli investimenti: che fine fanno gli incentivi agli investimenti produttivi, che fine fanno le politiche sull’innovazione?

La Banca d’Italia ci ricorda il mismatch fra competenze. Il 40 per cento dei lavoratori sente che non ha le competenze adatte a svolgere il proprio lavoro, in molte parti del Paese alcune aziende non riescono a trovare competenze. La struttura finanziaria delle imprese ancora troppo dipendenti dal credito bancario nonostante gli sforzi fatti con i Pir dei precedenti governi. Su questo perché neanche una parola, presidente? Presidente, l’impressione – e concludo – è che questi temi economici siano trattati dal suo governo con troppa approssimazione e troppa superficialità, talvolta persino con un po’ di non conoscenza. Allora, servire il paese non significa sacrificare competenze e precisione sull’altare degli slogan per ottenere consenso. Servire il paese, fare servizio pubblico, significa dimostrare che solo con passione e competenza si riescono a raggiungere gli obiettivi prefissi e si riesce a renderli fruibili anche ai non esperti. Presidente, servizio pubblico significa questo. E, mentre le rinnovo i miei auguri, le auguro anche di non dimenticarlo mai grazie.

 

*Intervento in aula durante il dibattito sulla fiducia alla Camera

 

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