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Hanno perso tutti, tranne una

Giovanni Cominelli martedì 27 Settembre 2022
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di Giovanni Cominelli

1. E’ già dall’analisi dei risultati elettorali che si misura l’intelligenza politica di una leadership.
Cominciamo dal primo dato clamoroso, ancorché non inatteso: l’astensionismo. E’ arrivato al 36%, nel 2018 era al 27%, nel 2013 al 25%.
Tutti i leader, vincitrice e vinti, si sono dichiarati amareggiati, scontenti, preoccupati ed hanno dichiarato che di qui in avanti faranno ogni sforzo per riportare gli elettori alle urne. Salvini ha dichiarato: quelli sono elettori della Lega, che si sono astenuti per protesta contro la partecipazione al governo Draghi. Ora che al governo ci siamo noi, torneranno. La Meloni, dopo aver proclamato il proprio dispiacere, ha però affermato solennemente che gli Italiani l’hanno scelta per governare. Solo che, se gli Italiani elettori potenziali sono cinquantuno milioni e soltanto nove milioni circa votano Fratelli d’Italia, tale retorica stride con il rammarico esibito, sincero e ipocrita al tempo stesso.
Nessuno dei leader, Letta compreso, ha riconosciuto che la causa prima dell’astensionismo, sia di quello passivo sia di quello di protesta, sta nel fatto che molti Italiani si sentono “cittadini inutili”. E si sentono tali, perché volontariamente esclusi dai dibattiti e dalle decisioni oligarchiche di partito. Eppure, la questione della riforma del sistema politico-istituzionale è il presupposto per riavviare la partecipazione dei cittadini alla politica. Non affrontando la quale, sarà difficile mantenere la promessa del “governo dei cinque anni” e porre fine a quella che Sergio Fabbrini ha definito “la politica fluttuante”, cioè l’elettorato fluttuante, i partiti fluttuanti, i governi fluttuanti…

2. La vincitrice è una sola, tutti gli altri hanno perduto: il PD, il M5S, la Lega, Forza Italia, Azione-Italia viva…
Per tutti i perdenti, la colpa si deve ricercare fuori dalle proprie file.
Il PD è inchiodato al 2018. Colpisce la giustificazione di Letta: ho proposto il “campo largo”, ma nessuno ci è voluto entrare. Invece di fermare la Meloni, hanno voluto fermare me! Il M5S del 2018 è uscito dimezzato dalle urne, ma canta vittoria, perché i sondaggi lo davano ancora più indietro. Forza Italia stava al 14% nel 2018, oggi sta appena sopra l’8%. La Lega è scesa dal 18% all’8% e qualcosa. Quanto a Azione-Italia Viva, mancano termini di paragone. Si può solo osservare che le oscillazioni di Calenda hanno costretto ad improvvisare nel giro di 1 mese e mezzo, pregiudicando potenzialità che pure erano nell’aria. In ogni caso, è l’unico tra i perdenti che non ha dato la colpa agli altri partiti. L’ha però data agli elettori, accusati di essere caduti in contraddizione, visto che Draghi sta tuttora in cima alle stime del 50% nei sondaggi e che nelle urne è stata premiata largamente una maggioranza del 60% anti-draghiana. Di tutte queste narrazioni, i destinatari sono gli iscritti al partito e i fan, non i cittadini.

3. Ciò che ci si attende dai partiti è una riflessione rigorosa non solo sullo stato del sistema politico, in crisi irreversibile, ma anche sulle culture politiche che stanno alla base delle proposte programmatiche, delle alleanze politiche nazionali e internazionali che ciascun partito propone.
Il Paese naviga da qualche decennio in un arcipelago di scogli, che ciascuno può vedere ad occhio nudo: un enorme debito pubblico, una lunga stagnazione, un inverno demografico alle porte, un’Amministrazione pubblica paralizzante, una Magistratura tuttora invasiva, un sistema di istruzione e educazione fallimentare… Tutto ciò in un oceano geo-politico sempre a rischio di tsunami.
Non solo il sistema politico-istituzionale costruito nel 1948 non garantisce più una navigazione sicura, ma anche l’impianto culturale dei partiti, fondato sulle categorie del ‘900, appare decisamente invecchiato nell’epoca della globalizzazione, della guerra in corso, del tentativo a direzione cinese di ridisegnare un mondo a misura di autocrazie.
La Destra appare particolarmente arretrata per quanto concerne le categorie di lettura della realtà mondiale:  la Meloni è atlantista, stile prima guerra fredda, ma euroscettica e sovranista alla Orban, Salvini è anti-atlantista e anti-europeista, Berlusconi è atlantista, europeista, ma anche filo-putiniano. La Sinistra, di cui il PD è il rappresentante quasi unico, sta perdendo le radici socio-economico-produttive nel Paese. Si è ridotta a partito dei diritti, a partito radicale di massa. Lo avevano ben previsto Augusto Del Noce e Baget Bozzo fin dagli anni ’80. Ha perso gli operai – è solo il quarto partito nelle loro preferenze – che vanno in piazza con Landini e alle urne con Meloni/Salvini, perché ha perso il contatto con la produzione, l’industria, il reale funzionamento del mercato del lavoro. Il Ministro Orlando ha riproposto le vecchie teorie sulla struttura del mercato del lavoro, fino a ipotizzare l’abolizione del Jobs Act renziano. La politica sociale si è ridotta ad inseguire l’assistenzialismo grillino. L’ipotesi ventilata da una parte del PD di un’alleanza organica con il M5S pone così la sinistra storica al seguito di una forza assistenzialista e corporativa, che asseconda le tendenze peggiori della società meridionale.

4. Queste elezioni mettono fine, irreversibilmente, all’ambizione ricorrente di parti del mondo cattolico, a volte orientate a sinistra a volte a destra, di contare in quanto cattolici in politica. Alla base di questa ambizione sta l’idea che i precetti morali, che si ritiene di poter far derivare dalla fede, possano essere protetti e sanciti dalla legge, cioè dallo Stato. E’ un’antica illusione clericale, che in Italia è durata più che altrove. Se i cristiani vogliono difendere l’integrità della persona, fin dal ventre materno, e le scelte di fine vita, non possono illudersi di poter affidare tale difesa allo Stato democratico-liberale, per natura sua pluralistico e agnostico. Il perché lo ha spiegato molto bene Ernst-Wolfgang Böckenförde, il grande filosofo del diritto, quando ha sostenuto che “lo Stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà. Da una parte, esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall’interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall’omogeneità della società. D’altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità, da cui si era tolto con le guerre civili confessionali”. Da parte cattolica, questa affermazione è stata letta come denuncia dei limiti etici dello Stato liberale. Ma si deve leggere anche come limite di una velleità cattolica di piegare lo Stato liberale alla propria etica. Rinuncia alla battaglia, dunque? No! Il deserto etico della società civile italiana ne ha urgente bisogno. Ma, come invita a fare P. M. Segatti, sulle orme di Rawls e, prima di K. Barth, occorre combinare radicalismo religioso e autonomia dalla politica. Dunque, facendo il verso a Cavour: “libera fede in libera politica”. Il difetto di questa parola d’ordine è che non basta proclamarla, occorre testimoniarla. E qui sta il difficile per i credenti, elettori ed eletti che siano.

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