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di Giovanni Cominelli

 

Ad ogni mutamento dei cicli politici, in Italia si riaccende la discussione all’interno e all’esterno dell’universo dei credenti sulla loro presenza/assenza nella politica. E poiché le elezioni del 4 marzo hanno segnato una frattura notevole – non si sa quanto epocale – rispetto ai vent’anni precedenti, sulle pagine di Civiltà cattolica, dell’Avvenire, di Famiglia cristiana e dei fogli locali di molte Diocesi sono fiorite analisi, allarmi e proposte soprattutto di fronte al contratto di governo e alle politiche effettivamente realizzate del M5S e della Lega, per quanto riguarda immigrazione, sicurezza e assetti istituzionali della democrazia.

 

Il cattolicesimo di Salvini e quello di Papa Francesco

E’ di questi giorni l’intervista al Corriere della Sera di Julian Carron, teologo e leader di Comunione e Liberazione, in cui invita a opporsi ai sovranismi. Molte voci, tanto dalla “sinistra” quanto dalla “destra” del mondo cattolico, lamentano la diaspora dei cattolici in politica e la loro ininfluenza. Sconsolatamente, si prende atto che “il cattolicesimo di Salvini vince sul cattolicesimo di papa Francesco”. Un documento di Alleanza cattolica, pubblicato all’indomani del 4 marzo 2018, denuncia  “non solo l’irrilevanza del cattolicesimo in politica, ma soprattutto l’irrilevanza della Chiesa a modificare i comportamenti sociali nei confronti della politica… l’elettorato cattolico… va da tutt’altra parte e senza grossi patemi d’animo. Omelie da una parte, Paese e maggioranza della gente dall’altra”.

Il card. Camillo Ruini, ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, lamenta, a sua volta, che “la fede stenta a tradursi in cultura, in capacità di valutazione e di giudizio.

Perché, dunque, “le omelie da una parte, la maggioranza del Paese dall’altra”? Eppure, nonostante la contrazione evidente della presenza dei credenti nella società italiana, e in particolare dei cattolici, continuano ad operare 226 diocesi, 25.605 parrocchie, 28.637 sacerdoti secolari, 13.496 sacerdoti regolari (appartenenti agli Ordini religiosi), 4.557 diaconi permanenti. Alla messa domenicale dichiara tuttora di partecipare il 27% circa della popolazione, certamente in calo, ma pur sempre imponente. Quale altra organizzazione socio-politica in Italia e nel mondo dispone di un tale pervasività e di un tale apparato?

 

Le omelie: la “salvezza” solo individuale, la fuga dal mondo

Forse una risposta esplicativa del divario tra le molte omelie e i pochi risultati nell’orientamento delle scelte di etica pubblica risiede proprio nei contenuti delle omelie stesse. In attesa di un’adeguata ricerca di sociologia religiosa, che ne raccolga sistematicamente i materiali e ne faccia un’analisi semantica e stilistica, sono costretto ad accontentarmi delle esperienze personali, scientificamente poco rilevanti.

L’ordinamento del Messale romano e ambrosiano prevede una Liturgia della parola, nella quale entrano le Letture bibliche, tratte dal Vecchio e/o dal Nuovo Testamento, un brano del Vangelo, l’omelia. Compito di quest’ultima non è solo quello di fare un’esegesi intelligente dei testi – assolutamente necessaria, in primo luogo, per quelli vetero-testamentari, altrimenti incomprensibili – ma di annunciare la Parola – il kerygma – per offrire a chi ascolta una chiave per interpretare il proprio presente esistenziale e storico e per dotarlo di linee-guida per la sua azione nel mondo reale.

Ora, non saprei fare il conto delle omelie che ho ascoltato, a intervalli irregolari, lungo i decenni: qualche migliaio? Dovendo operare una grezza tipizzazione quantitativa, la maggioranza di esse mostra di considerare la Chiesa e la chiesa come un rifugio/fuga dal mondo e la salvezza come una faccenda intima e personale, sradicata dalla storia del mondo. La personalizzazione del rapporto con Dio sembra totalmente prescindere dal mondo “là fuori”.

Conseguentemente, è tutta una cornucopia di espressioni stereotipate, che coinvolgono Gesù, la Madonna, i Santi, trasformati in oggetti devozionistici. Gesù il Cristo è diventato un’icona benefica. La convinzione che la storia presente del mondo e della società in cui viviamo sia terribilmente seria e drammatica e che richieda una tensione intellettuale ed etica, personale e collettiva, di messa in discussione e di trasformazione incessante di sé di non sembra minimamente sfiorare gli oratori vestiti di cotta e stola o di pianeta.

I fedeli ascoltano e poi se ne vanno così come erano entrati. Quelle parole e quel posto non c’entrano con la loro vita. Se ne vanno, contenti eventualmente di aver riaggiustato i rapporti con il Sacro, a poco prezzo, ma continuando a praticare cattivi o indifferenti rapporti con il prossimo e con il mondo. Non è più in chiesa e nella Chiesa che cercano una luce che illumini il cammino. Se la procurano in altro modo, fuori: Tv, mass-media, social-media. Paura di dividere la comunità dei credenti? Questo è un alibi che viene spesso invocato dai preti. Solo che il loro Maestro non si è mai piegato all’opinione pubblica dominante. Era un tipo abituato ad andare controcorrente!

 

Anche i preti hanno ceduto all’individualismo dilagante

Ma probabilmente la ragione più potente è che anche i sacerdoti hanno ceduto all’individualismo dilagante, in forza del quale il problema principale degli individui è divenuto quello di costruire e difendere la propria identità con le unghie e con i denti, a costo di allentare o spezzare la relazione con gli altri. Così che il sacerdote non si può permettere di turbare questa dinamica narcisistica. Perciò alla fede si accede con la tecnica del “fai da te”.

D’altronde, un ricercatore francese, Raphael Lioger, ha recentemente documentato come tutte le grandi religioni siano oggi attraversate da tre linee di tendenza: lo spiritualismo (l’esperienza religiosa come ricerca del benessere spirituale), il carismatismo (la convinzione di poter disporre di un accesso privilegiato ai doni particolari e personalizzati dello Spirito), il fondamentalismo (la religione come esperienza spirituale e civile totalitaria). Lo spiritualismo è quello più frequentato nelle nostre società del benessere, alla ricerca della pace interiore, lontana dalle scorie della storia e della vita. In questo caso, il messaggio parla all’individuo, non alla persona, non alla comunità religiosa e civile. La chiesa e la Chiesa diventano oasi in quel deserto, infestato dalla sabbia e dai predoni, che sono la vita quotidiana e la storia degli uomini. Il kerygma si trasforma in molte omelie in un messaggio pubblicitario del “benessere del cristiano”.

Certo, a questo punto non meraviglia che i cattolici non contino più nulla in politica. Perché dovrebbero, se si sono rinchiusi in un limbo spiritualistico?

 

La paradossale nostalgia dei tempi in cui si predicava la politica

Paradossalmente, viene la scorretta nostalgia per i tempi in cui – almeno fino al 1963 – il prete invitava dal pulpito – non erano ancora molto diffusi i microfoni – alla vigilia delle elezioni politiche, a votare “democrazia” (si dimenticava sempre di completare con l’aggettivo “cristiana”!). Provenendo dal “non expedit” attivo di fine ‘800 e dall’intrusione massiccia e compromissoria con il potere politico del ‘900 – da Pio XII al Card. Ruini – i cattolici italiani si sono rifugiati in un “non-expedit” passivo, introiettato, pigro.

Non si nutre certo nostalgia qui di un ritorno alla teologia politica. Ma occorre anche prendere atto che il presente storico e il futuro che sta arrivando stanno mettendo in questione sempre di più ciò che è propriamente umano dell’uomo, corrode le relazioni e, alla lunga, i diritti umani e civili e la democrazia. Non basta perché i cristiani facciano politica? Sono – o dovrebbero essere – un’ancora consistente minoranza creativa, decisiva per l’Italia.

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