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I due semi dell’America

Antonio Preiti mercoledì 4 Novembre 2020
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di Antonio Preiti

 

Due identità viscerali si sono scontrate in questi giorni per decidere il prossimo presidente degli Stati Uniti. Questa campagna elettorale, ancor più di quella precedente, che non era stata per nulla usuale, e aveva sorpreso anche per questo, è stata la più radicale di sempre, anzi primitiva, o meglio primordiale.

Non c’è solo la nettissima contrapposizione politica tra i due candidati, ma è come se il nucleo originario che ha dato vita all’America, la sua radice più profonda, la sua ragion d’essere storica si fosse scissa in maniera eclatante. Come se il suo mito fondante fosse irrimediabilmente diviso in due parti, che finora si sono tenute insieme, e che adesso non sembrano poterlo più fare.

Nella visione “ancestrale” democratica c’è il mito della nazione eletta, della frontiera, fisica, sociale e morale che si sposta ogni volta un metro più in là, della sua missione universale: il grande esperimento storico che ha formato una nazione non (solo) sulla forza, o sui diritti “divini” di famiglie regnanti, ma sulla ragione, cioè un governo fondato sul consenso dei governati. Da questa prospettiva, è Il più grande esperimento nella storia.

Nella visione “ancestrale” repubblicana c’è il mito di un manipolo di persone che ha costruito dal nulla una nazione fondata sulla libertà individuale, sul potere “terragno” che nasce dal basso, sulla negazione assoluta che uno Stato possa essere moralmente più rappresentativo di una singola comunità locale. La libertà come religione, che nasce direttamente dalla religione come libertà, cioè sulla “religion freedom”, che è la base morale e storica da cui nascono gli Stati Uniti. Queste due visioni si sono intrecciate in vario modo nella storia americana, ma adesso stanno insieme con difficoltà.

Guardiamo alla connotazione della campagna elettorale. Se scrutiamo la graduatoria delle emozioni, cioè alle espressioni emotive più cariche di significato, e perciò più incidenti nei comportamenti individuali, troviamo che nei primi dieci posti addirittura sette sono negative, anzi altamente negative, e questa è una condizione in buona parte (anche se non completamente) bipartisan.

L’emozione che ha dominato la campagna è la paura. Se diamo il valore 100 all’intensità di questo sentimento, troviamo al secondo posto, con il valore 68, perciò un po’ più della metà, l’odio. Registrare che l’odio sia in assoluto la seconda emozione che nasce dal confronto elettorale (non dei leader semplicemente, ma da tutto il corpo elettorale) è una pessima novità. Il parlare volgare (impoliteness) è al terzo posto e solo al quarto troviamo la speranza (hope), che pure ha dominato la prima campagna elettorale di Obama, ma anche tutte le altre che l’hanno preceduta. Le altre emozioni negative sono state: ansia, vergogna (vicendevolmente attribuita), tristezza e repulsione. Non un bel catalogo per una campagna elettorale.

Come sono lontani i tempi in cui si suggeriva di fare campagne elettorali solo positive, solo con parole ottimistiche, solo con concetti edificanti, quando adesso siamo al centro di una tempesta di parole, e non solo, di tutt’altro segno. Adesso le campagne elettorali si vincono con le emozioni e non con i programmi; con la comunicazione istantanea e non con la persuasione di lungo periodo; con il richiamo all’appartenenza passionale e non alla razionalità di cioè che è meglio e conveniente per tutti. E chiunque abbia a che fare con la psicologia, o semplicemente conosce l’animo umano, sa che le emozioni negative cancellano quelle positive, che il mondo della psiche è asimmetrico e nessuna buona notizia può bilanciare il terrore e la paura di una negativa. Se così è, questo è il risultato.

C’è un altro dato significativo: la figura e il giudizio su Trump ha dominato la campagna elettorale: basti pensare che fatto 100 il numero di volte che Trump è stato citato nei social media, per Biden questo valore si ferma a 27 e il terzo in classifica è Obama (10), non Kamala Harris o Mike Pence; per dire come a Trump, simbolo primigenio, il naturale contraltare sia Obama (ma lui non può correre). Sottotraccia (e sopratraccia) i due simboli che rappresentano i due mondi sono loro. Per altro, se guardiamo ai partiti, vediamo che quello Democratico è più citato dei Repubblicani. Una conferma e una contraddizione allo stesso tempo.

La cosa per certi versi più curiosa, ma che dice tutto sul senso di questa campagna elettorale, è che analizzando il contenuto dei twitter degli elettori democratici (negli Stati Uniti quando ci si iscrive alle liste elettorali si dichiara se si è democratici, repubblicano o indipendenti) al primo posto, come nome più citato, si trova Trump, addirittura citato più del doppio rispetto a Biden; se guardiamo alla parte repubblicana è lo stesso, senza però rovesciare le parti: Trump è il più citato e Biden pesa sempre per la metà. Scorrendo il ranking delle citazioni dei Repubblicani si vedono ai primi posti Nancy Pelosi e Hillary Clinton (ancora!). Perciò i Democratici hanno fatto campagna contro Trump e i Repubblicani contro Biden, Pelosi e Clinton (ma non contro Obama, o molto meno). Le due campagne sono state campagne contro.

Che i social media abbiano dominato la campagna e siano il contesto dove la polarizzazione è stata più forte, si vede da ogni dato: ad esempio, su un campione di iscritti a Twitter si scopre che su 750mila account seguiti, solo 10.150 (cioè l’1,4%) sono comuni ai due gruppi politici: in sostanza ognuno auto-alimenta la sua bolla. Ancora sui social media: il 10 % degli utenti genera il 92% dei contenuti, perciò quello che si vede è soprattutto il frutto del lavoro degli attivisti e non l’espressione generalizzata degli utenti. Così è: ci ritroviamo nell’eterna legge paretiana della minoranza che genera il tutto (o la maggior parte del tutto).

Qui c’è anche una suddivisione dei ruoli, perché su Twitter i Democratici sopravanzano i Repubblicani, ma su Facebook la proporzione è rovesciata. Facebook è oggi il centro di buona parte della comunicazione politica, visto che oltre la metà degli Americani s’informa sulla politica proprio da Facebook, in particolare le donne (61% contro il 39% degli uomini) e quanti hanno un livello di istruzione inferiore. Questo accade nonostante la stragrande maggioranza (82%) degli Americani (di tutti gli Americani) pensa che i social media trattino le notizie in maniera differenziata rispetto agli interessi politici dei singoli partiti e che il 55% sostenga che da quando esistono i social media l’informazione è nettamente peggiorata. Nonostante, nonostante, nonostante la lunga lista di perplessità, i social media hanno dettato i ritmi, i contenuti e le gerarchie emozionali della campagna elettorale.

Un altro aspetto da considerare è quanto vada cambiando il corpo elettorale effettivo (cioè gli iscritti alle liste elettorali): in vent’anni la parte di popolazione bianca (non ispanica) è passata dall’85% al 69% (mentre sul piano demografico rappresenta “solo” il 60%) e la popolazione d’origine ispanica è passata dal 2% all’11%, mentre quella nera è crescita solo di due punti (dal 9 all’11%), perciò oggi sul piano elettorale la popolazione ispanica pesa quanto quella di colore.

Questo vale in generale, ma se si guarda ai singoli stati, soprattutto a quelli che in bilico, si vede le conseguenze sono molto più stringenti: la popolazione bianca è scesa di 18 punti in Nevada, di 13 punti in Florida e di 12 punti in Texas, perciò la contendibilità di questi stati ha una componente politica fondata su basi più “ancestrali” come sono le appartenenze etniche. Anzi, si può dire che i cambiamenti politici seguono quelli demografici, seguono cioè l’onda lunga del loro cambiamento.

 

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