di Vittorio Ferla
La settimana scorsa il Fatto Quotidiano ha pubblicato un appello di un gruppo di intellettuali di sinistra, sia cattolici che laici, che chiedono, in sostanza, la liquidazione del Partito democratico (e del riformismo che ne ha ispirato la fondazione) e la sua aggregazione al Movimento 5 Stelle per creare un campo largo coerente con la linea Bettini-D’Alema-Conte. Tra i nomi più noti: Rosy Bindi, Vannino Chiti, Domenico De Masi, Gas Lerner, Tomaso Montanari.
L’appello propone i più scontati luoghi comuni delle analisi post-sconfitta: “l’incapacità delle attuali forze progressiste di intercettare le paure e la rabbia di una larga parte del Paese”, il disinteresse per la crescita delle diseguaglianze, la rinnovata necessità di attuare la Costituzione. Riproduce poi le classiche parole o frasi fatte che, a furia di ripeterle, diventano vuote e prive di senso: così il Pd deve accettare “il cambio del paradigma”, deve “andare oltre sé stesso”, “è necessaria una radicale discontinuità”, e via elencando. Punta il dito, infine, contro i comportamenti dei dirigenti e la stessa natura del partito, costruendo quel meccanismo automatico di giudizio morale e di conseguente senso di colpa che ha l’unico effetto di creare una soggezione psicologica senza risolvere alcun problema politico.
La prima a finire sul banco d’accusa è la “tentazione governista” del Pd che riduce il partito all’“establishment” allontanandolo dai ceti popolari. In sostanza, nella concezione moralista dei firmatari, il governo torna a essere sinonimo di corruzione in sé, cedimento al mainstream del pensiero unico, perdita della ispirazione originaria della sinistra, caduta dal paradiso delle idee nel fango dell’attività esecutiva. Il Partito democratico è un ‘angelo caduto’ all’inferno, che può redimersi solo espiando la sua condotta nella dura pratica dell’opposizione, vissuta come un lavacro di purificazione dagli errori compiuti in anni di gestione del potere, dimenticandosi degli ultimi. Questo impianto culturale tradisce però la resa definitiva alla logica binaria del populismo. Da una parte, una élite corrotta nella gestione del potere. Dall’altra, il popolo umiliato, dimenticato e offeso. La prima chiamata alla catarsi rigenerativa alla ricerca della ‘vera’ sinistra. Il secondo in attesa di una redenzione sociale (che sarà elargita da quella stessa élite ma solo quando tornerà ad essere ‘vera sinistra’). Insomma, un pastrocchio quasi-religioso che assomiglia più al velleitarismo del radicalismo sudamericano che al riformismo dei progressisti europei.
Non stupisce, dunque, che al momento di definire il perimetro della “missione politica” che il Pd dovrebbe recuperare, i firmatari non riescano a offrire di meglio che un richiamo fideistico alla Costituzione italiana, brandita come un programma di partito. Il nuovo “paradigma culturale e politico” del Pd che dovrebbe sostituire quello precedente, considerato inadeguato, si risolverebbe pertanto nell’attuazione dei principi della Carta, rimasta inattuata per 75 anni. La “comune stella polare, ideale e programmatica” per la futura unione delle forze progressiste dovrà essere “l’ancoraggio ai valori della Costituzione”. Siamo all’apice del cortocircuito intellettuale. Da una parte, la Costituzione è sentita come un testo sacro al quale abbeverarsi per riscoprire le fonti dell’ispirazione più autentica della vera sinistra. Dall’altra, la stessa Carta fondamentale diventa immediatamente un programma politico sul quale rifondare l’unità dei progressisti. Così facendo, però, restiamo in una concezione idealistica e “organicistica” della sinistra. Ancorata, a sua insaputa, a quell’approccio aristocratico che vorrebbe combattere. Se la ricetta è così semplice – agitare la retorica delle diseguaglianze, realizzare la giustizia sociale inverando la Costituzione – non c’è nemmeno bisogno di capire quali sono le trasformazioni profonde della società e le sue stratificazioni socioeconomiche. Governare il cambiamento è qualcosa di diverso dalla ripetizione di trite analisi moralistiche e dalla discesa della fiamma pentecostale dei valori costituzionali sulla depravata complessità della vita terrena.
E quali sono, secondo i firmatari dell’appello, i soggetti che dovrebbero portare a compimento questo velleitario programma palingenetico? Ovviamente, due: il Partito Democratico finalmente rigenerato e il M5s recuperato alla comune missione progressista. Il Pd, però, solo alla condizione di “andare oltre sé stesso”. Ma qual è il “sé stesso” del Pd? È proprio qui il centro del conflitto di questi giorni.
Il Pd nasce infatti come partito della sinistra a vocazione maggioritaria, capace di unire il meglio delle diverse tradizioni riformiste italiane (cattolico democratica, socialista, repubblicana, ambientalista) in una sintesi liberalprogressista sul modello dei democratici americani o dei laburisti britannici. Un partito interclassista. Chiamato a dare risposte alla domanda di emancipazione dei ceti popolari, da integrare sempre di più nel tessuto socioeconomico della Repubblica. E, allo stesso tempo, a promuovere l’impegno dei ceti produttivi, il cui contributo è cruciale per lo sviluppo del paese. Superare (o, meglio, liquidare) questo Pd tradisce l’obiettivo di ridurlo a rappresentante dei diseredati, in una visione distorta della realtà italiana che non vede l’estrema varietà e frammentazione sociale e che si concentra soltanto su un presunto ‘terzo’ povero del paese che esiste solo nella mente di alcuni intellettuali di sinistra. Gli errori di fondo sono pertanto due. Disegnare l’Italia come un paese sudamericano, cosa che non è, essendo la settima economia modale e il secondo paese manifatturiero d’Europa. Ridurre la sinistra nel ghetto del ‘terzo escluso’, cosa che non funziona, perché rende minoritari i progressisti e li cristallizza in una logica antisistema. Il M5s è perfettamente funzionale a questo disegno, visto che possiede il copyright del pauperismo anti-establishment e del moralismo giustizialista.
I firmatari dell’appello (nonché aspiranti liquidatori del riformismo) fanno al partito di Giuseppe Conte due richieste. Primo: “dimostrare che l’approdo a posizioni progressiste non è meramente tattico, ma l’epilogo di un definitivo chiarimento identitario”. Ma pretendere una promessa di fedeltà sponsale all’uomo che ha governato con tutti i partiti tranne quello di Giorgia Meloni fa un po’ ridere, onestamente. Secondo: “non pensare che la tenuta elettorale consegni al Movimento il monopolio del campo progressista”. In realtà, tuttavia, è proprio l’intero impianto culturale dell’appello dei ‘liquidatori’ che assegna al M5s il monopolio del campo progressista, ben al di là del peso dei numeri in parlamento. Se, come appare, nella mente dei firmatari la sinistra è soltanto la rappresentante degli ultimi e dei poveri e se il suo programma è una missione religiosa e salvifica che si esaurisce nella distribuzione dei pani e dei pesci, allora la subordinazione della tradizione democratica al populismo (‘costituzionale’) dei redentori è già nelle cose.
Non è un caso che l’appello non contempli tra i suoi destinatari il polo liberalprogressista di Renzi e Calenda, evidentemente percepiti come intrusi di cui la sinistra può finalmente liberarsi, eretici e servi dell’establishment. In questo modo, però, la sinistra perde il suo ancoraggio a quella parte dell’Italia più intraprendente, capace di generare innovazione, ricchezza e crescita. E si trasforma definitivamente in una forza conservatrice delle posizioni acquisite dai suoi tradizionali ceti di riferimento e meramente assistenzialista sul piano delle politiche pubbliche. Del tutto inadeguata a guidare il governo di un paese moderno con l’ambizione di dettare la linea circa l’evoluzione federale dell’Unione europea.
Un vero disastro, complici proprio quegli intellettuali liquidatori del riformismo dai quali ci saremmo aspettati una più profonda e lungimirante comprensione dei cambiamenti storici.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).