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I partiti nella trappola dello stato del benessere presente

Giovanni Cominelli domenica 26 Giugno 2022
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di Giovanni Cominelli

 

Poiché la politica in Italia, come quasi dappertutto nel mondo democratico, agisce e si incarna in un sistema dei partiti, quale destino può avere la politica, se lo scheletro del sistema resta in piedi, ma i partiti si sfrangiano, si fratturano, scompaiono, rinascono come nuovi puzzle di vecchi pezzi? Un destino breve, pare di capire.

Breve, in primo luogo, nella testa e nel cuore dei cittadini. Ma anche fragile sul piano istituzionale, nella misura in cui il sistema dei partiti fa parte dell’architettura istituzionale della democrazia. L’ultimo episodio – la scissione penstastellare di Di Maio – al netto del tutto positivo ai fini del governo Draghi, sembra confermare una deriva della politica, trascinata in basso dal declino dei partiti. I partiti hanno ancora un futuro?

La domanda è legittima. L’intero arco, da destra a sinistra e ritorno, sembra impegnato a competere per il voto dell’Italia che c’è, degli Italiani così come sono o come credono di essere. Donde la centralità del tema delle alleanze, donde la centralità del nuovo gioco topologico del “centro” e di quello correlativo di chi sta a destra e di chi sta a sinistra. Una luce in tanta nebbia è la consapevolezza che senza una ben definita collocazione internazionale la politica interna traballa. Ma acquisito tale punto, non ne seguono scelte sul piano né delle policy né delle politics.

Benché la parola “futuro” sia la più inflazionata, i partiti guardano non al futuro, ma all’Italia così com’è ora, della quale aspirano a conquistare il consenso. Solo “dopo”, arrivati al governo, si potrà cominciare a pensare al futuro. Solo che, per conquistare il consenso appare necessario vellicare ogni aspirazione, ogni scontento, ogni disagio vero o solo gridato, ogni pulsione corporativa del presente. E, si arrivi al governo da soli o in coalizione, il consenso raccolto sul presente funziona di lì in avanti come zavorra. E il governo non riesce a governare.

E’ possibile un cambio di passo? Di certo, è necessario. La politica – cioè l’arte di tenere insieme le società umane – non regge l’urto del conflitto di tutti con tutti senza una preruminazione degli interessi e delle pulsioni brute. E questo è il compito storicamente di ciò che si chiama “partito”, che è insieme organizzatore e mediatore di interessi rispetto alla totalità della società civile e dello Stato.

Come ricostruire la forma-partito? I partiti della Prima repubblica erano, in primo luogo, organizzazioni di sapere sociale. Dai gruppi dirigenti fino alle più minute propaggini territoriali essi vedevano, studiavano, registravano le dinamiche sociali e culturali del Paese. E fornivano coscienza di sé alle classi e ai gruppi sociali.

Chi fornisce autocoscienza oggi agli Italiani? Esistono molti centri di ricerca sociale, dentro le Università e collegati a centri di interesse, che producono preziose analisi sui movimenti superficiali e profondi della società italiana ed europea. Per i gruppi dirigenti si tratta di ricerche a perdere. Chi pone mano ad esse? L’Istat aggiorna periodicamente e offre un’immagine dell’Italia. Ma poi, come denuncia Dario Di Vico, arrivano altre immagini, assai meno fondate e più soggettivizzate: quelle dei sondaggi, quelle dei talk-show, quelle dei social-media.

In questo pulviscolo di idee, immagini, sensazioni ciò che si perde è la verità sul Paese e la capacità degli Italiani di vedersi per come sono. I gruppi dirigenti dei partiti si perdono in quel pulviscolo, nell’illusione che a quelle immagini, qualora adottate, si leghino dei consensi e dei voti. Il sapere costruito pazientemente nella scuola, nell’Università, nei luoghi della ricerca privata ha perso il primo posto nella gerarchia sociale per essere sostituito da opinioni fluttuanti, da sguardi superficiali, da emozioni prive di intelligenza. Il declino del primato del sapere sta alla base del declino della qualità civile della società e della politica.

C’è una spiegazione storico-sociale di tale fuga dal sapere, cioè dalla realtà?

Sì! Il mondo del benessere pensato, sperato, costruito qui in Europa sta finendo. Per molte cause, raccontate ogni volta fino alla noia, in questi anni.

Ecco, gli Europei, cioè gli Inglesi, i Tedeschi, i Francesi, gli Italiani… non accettano il nuovo mondo, disordinato, imprevedibile, incerto, che sta venendo avanti. Non lo accettano e non lo vogliono vedere. Donde la reazione populista, nelle versioni della destra sovranista e nazionalista e in quelle della sinistra mélenchonista. Rinchiusa nella trappola del benessere, la maggioranza relativa degli Italiani ha dato rabbiosamente la colpa a quelli che aveva votato fino a poco prima. Per cambiare radicalmente approccio alla storia del mondo? No, per mantenere tutto come prima: corporazioni, privilegi, evasione fiscale, assistenza a go go… E infatti, l’Italia non riesce a cambiare. Almeno, non tutta e forse neppure la maggioranza. Non ne ha voglia.

E allora, che cosa deve fare un partito? E’ qui che ci si divide, tra i partiti che vogliono cambiare lo stato di cose presente e quelli che lo vogliono mantenere così com’è, finché un’onda più grande non ci spazzi via. Questa è la sfida oggettiva delle prossime elezioni.

 

Editoriale pubblicato su www.santalessandro.org, sabato 25 giugno 2022

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