Non c’è un solo capo di governo, in Europa, che non avrebbe firmato ad occhi chiusi per un risultato come quello che ha ottenuto, alle regionali italiane, Matteo Renzi. Il leader del Pd è riuscito infatti a mantenere intatta e anzi a rafforzare la schiacciante supremazia dei democratici nel risiko dei governi regionali: grazie ad un 5-2 con il quale il centrosinistra ha ceduto al centrodestra una regione importante (ma piccola) come la Liguria, mentre ne ha conquistata una non meno importante (ma grande e popolosa), come la Campania.
Se ci fosse già il nostro Bundesrat, il Senato delle regioni, si direbbe che il governo Renzi ha rafforzato la sua già inarrivabile maggioranza (17 a 3) nella camera alta. Soprattutto, questo risultato, in sé più che positivo, è stato colto nella fase più difficile del ciclo di governo: quando la luna di miele è finita da un pezzo, ma è ancora troppo presto perché gli elettori avvertano e apprezzino i risultati positivi delle riforme fatte o in via di realizzazione; quando il cantiere lavora a pieno ritmo, con tutti i disagi (e i conflitti) che questo comporta, mentre la nuova casa si vede ancora solo sui disegni degli architetti.
Dunque, la spallata contro il governo Renzi (e la segreteria del Pd) non è andata a buon fine. E nei palazzi della politica (e non solo della politica, anche di gran parte della classe dirigente) italiana, è pieno di gente che si massaggia gli omeri doloranti. Nel frattempo, gli elettori hanno provveduto a mandare in dissolvenza molti refrain della propaganda antirenziana: la Liguria e anche l’Umbria, per non dire del Veneto, dimostrano che il potere in Italia resta contendibile, che non c’è nessun fascismo alle porte, nessun uomo solo al comando, né alcun rischio di partito unico. Ma se non c’è nessun tiranno, non c’è nessun diritto-dovere di tirannicidio. E se non c’è nessuna ragione nobile che possa motivarle, azioni suicide come quelle della sinistra ex-Pd in Liguria si dimostrano per quello che sono, atti di infantile e narcisistico autolesionismo, purtroppo ricorrenti nella storia, antica e recente, della sinistra italiana.
Atti ancora più assurdi e incomprensibili, se solo si considera che nessuno tra i candidati del Pd alla guida delle regioni era riconducibile al renzismo in senso stretto. Tutti e sette, alle primarie del 2012, avevano votato per Bersani, nessuno per Renzi. Tutti e sette, o erano incumbent, cioè uscenti confermati, o sono stati selezionati da primarie che il partito nazionale non ha potuto, voluto o saputo influenzare, se non in minima parte. Renzi può essere criticato per aver preferito la concordia interna ad un nuovo ciclo di rottamazione, che interessasse stavolta i livelli intermedi del partito. E in effetti, la sua scelta non gli ha consentito di procedere sulla via del rinnovamento, pagando per questo un prezzo in termini di consenso nel paese, senza neppure garantirgli la pace interna. Ma la teoria della mutazione genetica dal Pd al PdR (Partito di Renzi), si è dimostrata una forzatura priva di concreti riscontri empirici.
Il Pd, che ha confermato alle regionali il suo primato elettorale, sia pure stavolta come partito-guida di coalizioni vaste, anziché come partito a vocazione maggioritaria, è un partito pieno di problemi e di difetti, ma anche e indubitabilmente un partito plurale, policentrico e poliarchico: un partito certamente più esposto al rischio del disordine, al limite dell’anarchia, che a quello di un soffocante ordine monarchico. E allora, in un quadro come questo, che senso può avere spezzare il filo del confronto interno e intraprendere avventure solitarie verso il radioso obiettivo dell’8 per cento, come quello racimolato dal dream-team Cofferati-Civati-Pastorino?
Hanno anche detto, gli elettori, che la partita vera, quella per il governo del Paese, resta un gioco bipolare, tra Pd e centrodestra, come dimostra il risultato, lusinghiero in termini di voti, ma nullo per regioni conquistate, del Movimento Cinque Stelle. C’è da sperare che questo dato di realtà tranquillizzi Forza Italia e alleati e li disponga ad un dialogo maturo e sereno per il completamento delle riforme, che è nell’interesse del Paese e di chiunque sarà chiamato dagli elettori, nel 2018, a governarlo. La crisi del regionalismo italiano, messa in evidenza anche dal persistente calo della partecipazione al voto, rende necessario ed urgente il ripensamento del ruolo delle regioni e del loro rapporto con lo stato; e rende quindi attuale il confronto finale sulla riforma del Senato e del titolo V della Costituzione.
E c’è da sperare anche che questo risultato sia analizzato attentamente da noi del Pd. Perché è un risultato che ci consegna almeno tre grandi sfide. La prima è quella messa in evidenza dall’umiliante risultato del Veneto, talmente negativo da non poter essere attribuito ad altri che al partito nel suo insieme: dobbiamo chiederci come possiamo evitare di rassegnarci al richiudersi dei ghiacci di centrodestra al Nord e al dissolversi delle concrete speranze di un riallineamento strutturale dell’elettorato, alimentate dallo storico risultato delle europee di un anno fa. La seconda sfida è quella proposta dalla paura che ci ha fatto provare l’Umbria, col rischio che abbiamo corso di dover passare la mano anche in regione, dopo aver dovuto cedere al centrodestra la guida del comune di Perugia: come riprendere e rilanciare il rinnovamento renziano di contenuti, persone e metodi di amministrare e fare politica, in quelle che una volta si chiamavano regioni rosse e che oggi sono diventate regioni un po’ grigie, comunque contendibili come tutte le altre. La terza è la sfida che ci propone il risultato clamoroso che, nel giro di un anno, abbiamo raccolto nel Mezzogiorno, oggi interamente governato dal Pd: una fiducia che ci consegna un compito straordinario, per il rilancio di quella che Giorgio Napolitano ebbe a definire l’area sottosviluppata più grande d’Europa, un compito dal quale dipende buona parte del successo dell’impresa di far ripartire l’Italia, alla quale lavorano insieme il nostro partito e il nostro governo.
Consigliere provinciale a Trento e presidente del gruppo del Partito Democratico del Trentino. Componente della Presidenza di Libertà Eguale.
Senatore dal 2001 al 2018, è stato vicepresidente del gruppo del Partito democratico in Senato, presidente della Commissione Bilancio e membro della segreteria nazionale del Pd.
E’ stato presidente nazionale della Fuci, sindacalista della Cisl, coordinatore politico dei Cristiano sociali e dirigente dei Democratici di Sinistra.
Tra gli estensori del “Manifesto per il Pd”, durante la segreteria di Walter Veltroni è stato responsabile economico e poi della formazione del partito.