di Claudia Mancina
Tutti noi abbiamo vissuto con Emanuele un pezzo della nostra vita politica nel Pci. Ma è soprattutto dopo che si è sviluppata la sua lezione. Diversi dirigenti del Pci di quella generazione hanno scritto libri di memorie. Ma nessuno ha dispiegato tanta ricchezza di analisi e riflessioni come Emanuele. A tutto campo, anche con ruvide critiche ai compagni di un tempo. Lo ricordo alle assemblee di Libertà eguale, che non mancava mai, intervenendo sempre con acume. C’era nei suoi interventi il dissenso e insieme la solidarietà.
Vorrei indicare qui quelli che mi sembrano gli assi principali della sua riflessione sul Pci e sull’uscita dal Pci. 1: Il 56; 2: la politica di Berlinguer nel rapporto con i socialisti; 3: il giudizio sulla svolta.
1-Il 56: una contraddizione che non poteva essere sciolta.
Si dice spesso che la storia sarebbe stata diversa se il Pci avesse rotto con Mosca al momento dell’invasione dell’Ungheria. Emanuele sostiene, in più occasioni, che questo disallineamento era in realtà impensabile, per la composizione del gruppo dirigente in quella fase. Si trattava della prima generazione dei comunisti. Cioè persone che avevano condiviso, spesso anche nella loro biografia, il rapporto con l’Urss. Questo è vero in primo luogo per Togliatti, che ha vissuto in esilio in Urss per diciassette anni, e sebbene abbia vissuto qualche brutto quarto d’ora, non poteva certo dirsi inconsapevole e neanche del tutto innocente di ciò che accadeva lì. Ricordo una infelice ma significativa definizione data da Occhetto: “oggettivamente corresponsabile”. Di fatto Togliatti non era in grado, così come il suo gruppo dirigente, di spezzare il rapporto con Mosca, pur essendo consapevole dei limiti dell’esperienza sovietica, come risulta dal Memoriale di Yalta e (già prima) dal suo rifiuto a presiedere il Cominform. Togliatti voleva fare politica in Italia, seguendo le linee della politica nazionale già disegnata da Gramsci. La partecipazione alla Costituente, la linea della democrazia progressiva, erano certamente in contraddizione con il legame con l’Urss, ma era una contraddizione che non poteva essere sciolta. La ricostruzione della politica di Togliatti che Emanuele fa nel suo libro sul tema è esemplare. Tuttavia una contraddizione che pesò e pesa ancora sul giudizio sul Pci: pensiamo al tema della doppiezza, peraltro introdotto dallo stesso Togliatti. In ogni caso, Togliatti resta l’autore della felice originalità del comunismo italiano, ed è vano il tentativo di alcuni di ridimensionarne il ruolo, fino a proporre una storia immaginaria che andrebbe direttamente da Gramsci a Berlinguer.
2-La questione Berlinguer.
Fu vero strappo? Sulla risposta a questa domanda si nota qualche incertezza. Da un lato si dice che lo strappo ci fu, dall’altro che anche Berlinguer non recise del tutto il legame con la rivoluzione d’ottobre e con il leninismo. Cosa che peraltro risulta evidente dai suoi scritti e discorsi. Ma ciò che conta di più, nel giudizio di Emanuele, è la scelta politica (peraltro del tutto in continuità con Togliatti) di porre la questione del governo, o di entrare nell’area di governo, come si diceva. Se questo fosse avvenuto, il rapporto con Mosca sarebbe inevitabilmente saltato. E’ questo il vero strappo, mi sembra che sia la conclusione di Emanuele. Una notazione molto acuta, e molto interessante, è quella che Berlinguer si muove, nella proposta politica del compromesso storico, sulla base di una visione pessimistica ed emergenziale, ben rappresentata dal riferimento alla vicenda cilena. Una vicenda – questo lo dico io – che certamente poteva avere ben pochi punti di contatto con la situazione italiana. Emanuele ricorda la svolta di Salerno come un grave errore, peraltro non condiviso da gran parte della Direzione. Ma dopo la morte di Moro, dice Emanuele, né il Pci né gli altri partiti avevano più una strategia. E per questo l’intero sistema politico precipitò nella crisi poi conclusasi con Tangentopoli. Ma il punto centrale nella riflessione su Berlinguer è quello del rapporto con i socialisti, che è stato essenziale per tutta la vita di Macaluso. Su questo c’è, nel volume con Petruccioli, un confronto lungo e duro. Petruccioli sostiene (io credo a ragione) che il Pci avrebbe dovuto, nel 1983, quindi nel momento della massima debolezza della Dc, proporre ai socialisti di fare un governo insieme. La famosa alternativa di sinistra, insomma, che il segretario rifiutò sempre. E la rifiutò perché il Pci non poteva rinunciare alla sua primazia sul Psi. Emanuele non è d’accordo con questa analisi; ma sottolinea l’ossessione di non assimilarsi ai partiti socialdemocratici (tra parentesi, quale fondamento aveva questo rifiuto se non il legame con la rivoluzione d’ottobre?). Ovviamente invece sarebbe stata questa la strada da percorrere.
3-Infine, la svolta di Occhetto.
Qui il giudizio è solo in parte positivo. Com’è noto, i riformisti aderirono alla proposta ma con un documento distinto: si chiamò “adesione motivata”. Non convinceva l’ispirazione che fu detta oltrista, o nuovista. Non convinceva il richiamo alla discontinuità, la ricerca di una identità inedita, e quindi la scelta del nome: partito democratico della sinistra, non laburista o socialista. Perché questa ispirazione rischiava di perdere il meglio della storia del Pci, e soprattutto non faceva quello che per Emanuele e per tutti i riformisti sarebbe stato il passo obbligato: la scelta non ambigua, finalmente, per la socialdemocrazia. Anche se nei fatti, nelle politiche concrete, il Pci era più socialdemocratico che comunista. Fino a un certo punto. Petruccioli richiama l’affermazione di Veca: credevo che il Pci fosse un partito socialdemocratico ma quello che è successo dopo dimostra che era un partito comunista. Io seguivo la linea che viene definita oltrista, e alle osservazioni dei riformisti potrei obiettare che anche i partiti socialisti europei cercavano di andare oltre la tradizione, vedi Blair e Schroeder. Blair tra l’altro anche con una battaglia politico-teorica, quella sulla clausola 4. Ma loro non avevano bisogno di cambiare nome e identità, potevano cambiare in modo per così dire evolutivo. Per noi comunisti era ovviamente diverso; il cambio del nome era una questione di identità, non si poteva semplicemente trasferirsi in una identità precostituita. Interessante, e per me del tutto condivisibile, l’osservazione che la svolta non diede luogo a un serio revisionismo. Questa è certamente la debolezza che sta alla base delle vicende successive. Da qui anche una debolezza della fondazione del Pd, che volendo essere duri, ma con qualche ragione, può essere considerata come effetto del fallimento dei postcomunisti nell’impresa di uscire da quel post, e diventare veramente qualcosa di nuovo. Quel revisionismo che mancò nella svolta, è rimasto a gravare sul Pd. La confusione attuale non fa che confermarlo.
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)