di Umberto Ranieri
All’alba del 7 ottobre 2023, duemila fedayn di Hamas armati fino ai denti attraversavano la barriera di sicurezza ritenuta inviolabile al confine tra Gaza e Israele. Uomini, donne, bambini sorpresi all’alba della festa ebraica di Simchat Torah, venivano ammazzati.
“Ebbri di odio e ferocia”, scrive David Grossman, “hanno massacrato intere famiglie nelle loro case. Genitori davanti ai loro figli, figli davanti ai loro genitori. Hanno violentato e ucciso persone innocenti che ballavano al Nova Festival. Le hanno inseguite e trucidate…”: più di 1200 israeliani uccisi, violenze a donne e bambini, 253 rapiti, condotti come bestiame nei tunnel dove alcuni di loro saranno umiliati, picchiati, nutriti con avanzi o affamati.
L’eccidio ha evocato l’orrore dei pogrom, addirittura della Shoah, iscrivendosi, ricorderà Gilles Kepel, nel solco delle innumerevoli persecuzioni subite dagli ebrei nel corso della loro storia. Nella strage del 7 ottobre qualcosa va oltre lo scontro che si trascina da 76 anni tra i due popoli vicini.
La strage è avvenuta quando sembrava potersi stipulare la storica apertura delle relazioni diplomatiche fra Israele e Arabia Saudita. Tappa importante di un processo teso alla stabilizzazione della regione che l’Iran intende impedire. Gli obiettivi di Teheran sono due, perseguiti da sempre dall’autorità suprema della rivoluzione islamica Alì Khamenei: espellere Washington dalla regione, annientare Israele.
La risposta militare di Israele era inevitabile per garantire la sicurezza delle popolazioni al confine con Gaza e per non offrire segnali di debolezza ai tanti nemici esterni. Ma è stata anche la trappola su cui da sempre contano i gruppi terroristici per creare dolore tra la popolazione civile, sperando si traduca in consenso verso di loro. Indurre con la ferocia del pogrom del 7 ottobre l’esercito israeliano ad una reazione così dura da minare qualsiasi simpatia Israele abbia raccolto sulla scena mondiale.
Cosa avrebbe potuto fare di diverso Israele difronte ad un gruppo terrorista che si propone di distruggere lo Stato ebraico e di eliminare la presenza degli ebrei dalla regione? Israele non aveva alternative se non affrontare con le armi l’aggressione di Hamas e gli Hezbollah che dal Libano del Sud con il lancio di razzi costringevano la popolazione al confine con il Libano ad abbandonare le loro case.
Israele è stato costretto ad aprire il fronte Nord contro Hezbollah. L’uccisione del loro capo, lo sceicco Hassan Nasrallah, colpisce il “Partito di Dio” braccio armato dell’Iran che ha distrutto il “Paese dei cedri” e ridotto il Sud del Libano ad una enclave del terrorismo filoiraniano. Teheran era convinta di poter continuare a tirare i fili della destabilizzazione in Medio Oriente attraverso una rete di milizie armate e addestrate, anche non sciite, dagli Houthi del Golfo alle sponde del Mediterraneo. Una rete che accerchiava Israele conducendo una guerra per procura senza che l’Iran si esponesse direttamente. Quel disegno è saltato con la decapitazione dei vertici di Hezbollah e l’invasione del Sud del Libano da parte di Israele per ridimensionare la forza armata del gruppo sciita e spingerlo oltre il fiume Litani.
Come sempre, in 76 anni di storia, Israele sta vincendo le sue guerre, anche quella accesa dalla scintilla del 7 ottobre: a Gaza contro Hamas, nel Libano contro Hezbollah, negli scambi dal cielo contro Iran. Interrogativi di fondo incalzano tuttavia lo Stato ebraico: come sarà governata e ricostruita Gaza? Che ne sarà del Libano? Andrà ad uno scontro diretto con l’Iran?
Il presidente iraniano Pezeshkian sembra voler tenere aperto un negoziato che consenta al suo Paese di uscire dalla morsa in cui si è cacciato. Il discorso della “Guida suprema” per la commemorazione di Nasrallah, non fa ben sperare. Alì Khamenei ha definito legittima la strage di civili ebrei del 7 ottobre, ha affermato che, se necessario, l’Iran colpirà ancora. Ha parlato con un fucile accanto. Quasi un invito a Israele a colpire duramente!
Destino d’Israele è stato di vivere “con la spada sguainata” diceva Levi Eshkol, primo ministro israeliano durante la guerra dei sei giorni. Ma il costo politico del successo militare si è rivelato sempre più alto. La sensazione di una vulnerabilità strategica non ha mai abbandonato Israele. La carneficina dei civili ebrei il 7 ottobre ha drammaticamente accresciuto questa sensazione. La forza militare è stata e resta importante.
Occorre tuttavia una strategia politica che persegua la soluzione del conflitto israelopalestinese. La via non può essere l’annessione ufficiale o strisciante dei territori occupati dal 1967! Torni la politica ad essere fattore decisivo per perseguire l’obiettivo della sicurezza. Si riconosca Israele nella strategia cui lavorano gli Stati Uniti: un assetto politico dell’area mediorientale basato sul rinnovo delle intese tra Israele e le monarchie sunnite del Golfo, la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e Arabia Saudita, un itinerario per giungere allo Stato palestinese che comprenda Gaza e la Cisgiordania. Un assetto che isolerebbe l’Iran il cui obiettivo è imporre la propria egemonia sui Paesi sunniti facendo perno sulla accelerazione del programma nucleare.
Per muovere in questa direzione occorre liberare il governo israeliano del fanatismo religioso. Già prima del 7 ottobre milioni di israeliani hanno manifestato contro il governo e il suo capo. Un movimento che ha cercato, ricorda David Grossman, di “riportare Israele a se stesso, all’idea grande e nobile alla base della sua esistenza: creare uno Stato liberale, democratico, pacifico, pluralista rispettoso della fede di ciascuno”. Invece di ascoltare le idee del movimento di protesta, conclude Grossman, “Netanyahu ha scelto di oltraggiarlo, tacciarlo di tradimento, aizzare gli animi, fomentando l’odio tra le parti”.
Occorre una nuova guida politica per Israele, che interrompa la colonizzazione della Giudea e della Samaria che i governi di Netanyahu hanno consentito influenzati dal “Blocco dei fedeli”, il movimento messianico che Rabin definiva “il cancro della democrazia israeliana”. Israele ha una superiorità militare incontestabile ma non può eludere la realtà pena il sopravvento del senso di ingiustizia e del desiderio di vendetta.
Presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa. Docente a contratto, insegna Storia dell’Europa all’Università La Sapienza di Roma, dove, Economia dei paesi in via di sviluppo all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Politica estera dell’Unione europea all’Orientale di Napoli. È stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature (XII, XIII, XIV, XV) eletto nelle liste Pds, Ds e, infine, Pd. È stato anche Presidente della Commissione “Affari esteri e comunitari” della Camera dei deputati. Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri dal 1998 al 2001 nei governi D’Alema I, D’Alema II e Amato II.