Pubblichiamo un articolo del direttore Marco Martorelli apparso sul sito italiaincammino
Quando l’offerta politica è chiara e le regole del gioco comprensibili ed efficienti, gli italiani scelgono ancora il bipolarismo, contrapponendo ad un centrosinistra solido l’alternativa credibile del centrodestra, e ridimensionando così il m5s a percentuali ininfluenti, proprie di una forza antisistema.
Sembra questa una prima lettura possibile del risultato delle elezioni amministrative dell’11 giugno, che – pur caratterizzate da una bassa “carica” politica anche a causa della distrazione dei partiti maggiori in campagna elettorale – hanno presentato risultati troppo uniformi dal Nord al Sud del Paese per non rendere evidenti alcune tendenze di fondo.
“Educate” e indotte dalle regole del gioco (lo vediamo al punto 2), a livello locale le forze politiche hanno ormai una consolidata attitudine a proporre agli elettori delle offerte politiche caratterizzate da una chiarezza del messaggio e dell’alternativa: “o di qua o di là”, a Genova o con Bucci o con Crivello, a Palermo o con Orlando o con Ferrandelli, e così via.
E gli elettori rispondono a queste proposte politiche orientandosi con razionalità – e in modo equilibrato da nord a sud – lungo gli assi delle alternative di centrosinistra e centrodestra. Messo in crisi a livello nazionale nelle ultime due legislature, il bipolarismo resta quindi – come si dice – nel DNA dell’elettorato: molta della fortuna dell’antipolitica (e della confusione) di questi ultimi anni è stata determinata anche dalle incertezze nel processo di “bipolarizzazione” del sistema. Prendere nota.
Certo, dopo il 4 dicembre e il successivo fallimento dell’accordo sul sistema tedesco è complicato ribadirlo, ma, se è decisiva la determinazione delle forze politiche a presentarsi agli elettori in modo aperto e coerente, non possiamo sottovalutare l’importanza delle regole del gioco istituzionale.
È ormai da oltre vent’anni che il sistema di elezione diretta dei sindaci si dimostra affidabile, consentendo l’affermazione di maggioranze stabili e garantendo ai cittadini di vedere soddisfatte – per l’intera durata di un mandato – le due fondamentali esigenze di chi si reca alle urne: scegliere da chi essere governati e scegliere da chi essere rappresentati in assemblea.
Per trasporre questo modello sul piano nazionale – avvicinando le nostre istituzioni agli standard di efficienza di cui stanno dando prova, ad esempio, quelle francesi – non basta cambiare la legge elettorale, si tratta di mettere mano nuovamente alla seconda parte della Costituzione, magari stavolta con un accordo parlamentare che regga fino al compimento del percorso di riforma. Vaste programme, per dirla – non a caso – in francese, ma prendere nota per la prossima legislatura.
Se nel centrodestra si fossero affermate leadership in grado di “rottamare” quelle dei fondatori della coalizione – come è invece successo nel centrosinistra – molta della disaffezione che ha contribuito al successo del m5s sarebbe stata riassorbita in una fisiologica dinamica bipolare.
Il risultato dell’ 11 giugno (e quello delle ultime comunali di Milano) lo conferma: quando il centrodestra si presenta unito e con candidati pragmatici e non identitari, il m5s non va oltre il ruolo di terza forza, spesso con un largo distacco in termini di voti (anche a causa delle fin qui deludenti esperienze amministrative di Roma e Torino e nonostante la centralità raggiunta nell’agenda dei media).
Detto dal campo avverso, sarebbe positivo per il Paese se una contesa aperta nel centrodestra selezionasse una leadership moderata, nuova e veramente competitiva, magari legittimata a formulare un accordo tra avversari col centrosinistra per riformare assieme le regole del gioco, sulla base di quanto detto al punto 2.
Sarebbe un bene, se dall’altro lato del campo prendessero definitivamente nota.
E veniamo al Pd e al centrosinistra, che si affermano in molte città, nonostante la responsabilità di governo nazionale.
Perché è chiaro che dal governo Monti in poi il Partito democratico si assume l’onere delle scelte di governo, in una fase in cui il centrodestra – anche a causa del mancato ricambio di cui al punto 3 – è entrato in crisi.
Il Pd è percepito dagli italiani come il perno dell’establishment politico di questo Paese: è questo vale sia per gli incoraggianti risultati raggiunti con il governo Renzi, come anche per quelle riforme che ancora mancano per aiutare l’Italia a lasciarsi alle spalle la crisi economica.
Così è, perché così il Pd – ribadiamo – è percepito dagli italiani: fare finta del contrario sarebbe ridicolo oltre che sterile in termini di strategia elettorale.
L’11 giugno conferma che il Pd è solido e che gli alleati di coalizione possono essere determinanti per la vittoria se non si rinchiudono nel settarismo identitario e se condividono fino in fondo la responsabilità di governo.
È chiaro che quel che funziona a livello locale non necessariamente vale per il livello nazionale: se è difficile coalizzare lepenisti antieuropei e moderati, è altrettanto complesso tenere assieme con costrutto riformisti e massimalisti di sinistra.
Lo stesso strumento della coalizione elettorale – che nelle città è generalmente valido – a livello nazionale ha dimostrato di non reggere, soprattutto a sinistra, per il tempo di una legislatura.
E qui si torna al tema delle regole: occorrono regole che favoriscano la ripresa della maturazione del processo bipolare verso una stabile alternanza tra forze di governo, mettendo al riparo i governi dai veti di eventuali junior partners. Tenendo presente questa esigenza di fondo, il Pd ha davanti mesi per continuare a governare bene e al contempo per lavorare ad un programma ambizioso e ad un rinnovamento del partito e dei candidati che renda credibile una tale ambizione.
Se l’avversario vero fosse un centrodestra maturo e non il populismo situazionista del M5s, sarebbe un bene per il processo di maturazione della classe dirigente del Pd e, quindi, per il Paese.
Direttore di Libertàeguale. Lavora per un importante gruppo bancario italiano, ha collaborato a progetti del gruppo Reti nell’ambito della comunicazione e delle relazioni istituzionali ed è stato vicepresidente nazionale della Fuci. Twitter: @marcomartorelli