di Vittorio Ferla
La nomina di Paolo Ciani, deputato cattolico, a vicecapoguppo del Pd alla Camera, decisa da Elly Schlein mercoledì scorso, è una nuova spia dello stato confusionale che regna tra i dem. Con questa mossa, la segretaria voleva raggiungere tre obiettivi.
In primo luogo, fare avanzare nelle gerarchie del partito una figura capace di rappresentare quel pacifismo radicale che mal sopporta il sostegno militare all’Ucraina. Una posizione che, a dispetto delle dichiarazioni di facciata, ispira prima di tutto la cultura personale di Elly Schlein e di una parte minoritaria ma importante del Pd. In secondo luogo, la nomina è andata a scapito di Piero De Luca, l’ormai ex vicecapogruppo del Pd alla Camera, su decisione dell’assemblea del gruppo, è stato ‘demansionato’ a segretario con delega per il Pnrr, riforme e sicurezza a Montecitorio. Infine, con la promozione di Ciani, Schlein vuole rafforzare la fisionomia utopista e radicale del Pd con il coinvolgimento di un certo mondo cattolico, oltranzista sui temi della pace, dell’ecologia e dei diritti sociali. In questo modo, Schlein pensava anche di rintuzzare le critiche di chi la accusa di scarsa considerazione per la storia di pluralismo culturale del partito e di lanciare una nuova classe dirigente per soppiantare quella attuale. A giudicare dalle reazioni di questi giorni, la mossa non sembra affatto riuscita.
Il primo elemento di discordia è la posizione ultrapacifista di Ciani. “Sono contrario all’invio di armi, anche il Pd ora può cambiare linea”, ha dichiarato Ciani subito dopo la nomina, in una intervista sull’Ucraina rilasciata a Repubblica. D’altra parte, il vice capogruppo dem era stato l’unico del Pd a votare votato contro le armi all’Ucraina. “Non credo nella vittoria militare, cioè ad armare l’Ucraina perché possa vincere”, ripete da tempo. In più, ritorna in auge con Ciani il solito ritornello anti-europeo e anti-occidentale. “Bisogna investire nella spinta al cessate il fuoco. Per ora l’Europa e l’Occidente non stanno facendo abbastanza”, assicura il deputato cattodem, in questo seguendo forse le considerazioni del Papa sulla Nato che “abbaia” alle porte della Russia, ma di sicuro allontanandosi dalle parole di un altro cattolico, il presidente della Repubblica, che fin dall’inizio della guerra ha declinato un magistero preciso sulla vicenda ucraina, stigmatizzando la “furia bellicista” e l’aggressione ingiustificata della Russia in violazione dell’ordine liberale internazionale e confermando la fedeltà piena dell’Italia all’impegno euro-atlantico. A dispetto di questo indirizzo, Ciani ha dichiarato che sull’Ucraina “si può anche cambiare parere” e che “il no alle risorse del Pnrr per le munizioni è stato un salto di qualità, non sbagliato”. In realtà, è stata proprio una sua collega a Montecitorio, Lia Quartapelle, già responsabile esteri del partito ai tempi di Letta, a chiarire – contro la posizione astensionista della stessa Schlein – che il provvedimento della Commissione Ue in voto all’Europarlamento non prevedeva affatto un obbligo di spostare le risorse del Pnrr verso le spese militari, bensì offriva una facoltà ai paesi membri che lo richiedessero (tra questi non c’è l’Italia) di attingere una parte di quelle risorse nella prospettiva di costruire una difesa comune europea in una fase di emergenza come quella che stiamo vivendo. Insomma, si persiste nell’errore.
L’altra nota dolente è l’esautorazione di Piero De Luca. Schlein ha cercato in questo modo di mandare due messaggi per nulla subliminali. Il primo è rivolto a Vincenzo De Luca, padre di Piero e presidente della Campania: un uomo che Schlein considera come un avversario ingombrante. Il suo ridimensionamento è un pezzo rilevante della strategia della segretaria per costruire un Pd a propria immagine. Il secondo messaggio è rivolto alla corrente di Base Riformista, di cui De Luca Jr fa parte. Ridurre gli spazi di agibilità dei riformisti nel partito consente a Schlein di estendere quelli dei suoi, con l’obiettivo di dominarne tutte le dinamiche e di imporre una duratura svolta corbyniana. L’operazione è particolarmente traumatica visto che Paolo Ciani non è iscritto al Pd, né intende iscriversi al partito che l’ha scelto. Di più, il vice capogruppo è addirittura il segretario nazionale di Demos, “che è un partito a tutti gli effetti, iscritto al registro dei partiti e che chiede il 2xMille”, spiega Ciani. Un partito che vuole rappresentare l’esperienza cattolico-romana che proviene dalla Comunità di Sant’Egidio. A dimostrazione che la vicenda ha radici lontane, va ricordato che proprio Ciani è stato, dal 2018, consigliere regionale durante la presidenza di Nicola Zingaretti nonché capogruppo di Demos nel consiglio regionale del Lazio. In sostanza, siamo solo di fronte all’ultimo di una serie di episodi di una strategia chiara, avviata con le primarie: quella di riempire le caselle della nomenclatura del Pd con personaggi provenienti dall’esterno del partito – dalla stessa Schlein ad Arturo Scotto, coordinatore di Articolo Uno, da Sandro Ruotolo a Marta Bonafoni, da Marco Furfaro a Igor Taruffi, fino a Paolo Ciani – per spostarlo sempre più verso posizioni massimaliste che non appartengono alla sua storia. C’è da chiedersi fino a quale limite si spingerà questa operazione (che emergerà con forza al momento delle candidature per le elezioni europee) e, soprattutto, fino a quando il resto del partito sarà disponibile a sopportare quella che considera una prevaricazione se non una vera e propria rimozione.
In questo senso va letto anche il terzo nodo: l’apertura a personaggi provenienti non semplicemente dal mondo cattolico democratico tout court, bensì da quel circoscritto mondo cattolico-sociale maggiormente attraversato da venature utopistiche e oltranziste, come nel caso di Ciani. La ricerca del cattolico come foglia di fico per dimostrare il pluralismo del partito è già parecchio discutibile in sé. Dimostra una visione limitata di quella cultura politica, strumentalizzata come una volta si faceva per gli indipendenti nel Pci, ma che è ben più complessa e variegata e costituisce una delle basi fondative del Pd del Lingotto. Ma le recenti elezioni amministrative hanno già registrato la sconfitta di questa strategia. I due candidati cattolico-sociali a sindaco più reclamizzati – Paolo Martinelli, ex presidente delle Acli, candidato a Pisa, e Anna Ferretti, ex Caritas, a Siena – che avrebbero dovuto interpretare la rivincita della sinistra alternativa, anche nella sua declinazione cattolica, sono stati travolti. Il motivo è semplice: alle comunali servono candidati capaci di garantire capacità di governo e di presidiare l’elettorato centrale, che è quello determinante. Nessuno cerca i rivoluzionari. Insomma, in prospettiva la strategia di Schlein appare ingenua ai limiti dell’autolesionismo.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).