di Salvatore Curreri
Una delle questioni che il (perenne) dibattito sulla futura legge elettorale dovrà affrontare riguarda le modalità di scelta dei parlamentari da eleggere. L’acceso dibattito appena avviato – con l’appello firmato da dieci costituzionalisti contro le liste bloccate al quale ha fatto subito quasi da ideale contraltare un articolo sulle sconcezze delle preferenze – dimostra quanto il tema sia destinato ad essere percepito come decisivo da un elettorato palesemente insofferente circa la qualità dell’attuale classe politica.
Chi scrive è convinto che la pessima immagine dei parlamentari sia in parte anche imputabile ai media che preferiscono dare ampia pubblicità agli aspetti più deteriori della politica-spettacolo (salvo poi lamentarsene), anziché all’oscuro lavoro svolto dalla maggioranza di essi che, proprio perché tale, non merita l’onore delle cronache. Ciò nondimeno, non c’è dubbio che i partiti politici, e per essi i loro dirigenti, non siano stati all’altezza del senso di responsabilità istituzionale che la selezione di candidature “bloccate” impone, facendo prevalere la fedeltà (talora non solo politica) alla competenza. Né il rimedio della apertura indiscriminata delle liste ai candidati più votati dagli iscritti sperimentato dal MoVimento 5 Stelle con le c.d. parlamentarie ha sortito gli esiti sperati, come dimostrano i francamente imbarazzanti casi di parlamentari assolutamente privi di competenze (talora anche sintattiche e grammaticali).
Giorni fa su queste colonne Giorgio Tonini in modo assolutamente condivisibile richiamava l’esigenza a superare il conflitto tra riformismo e populismo, cercando di individuare in esso ciò che è espressione di un sentimento “popolare” che merita di essere colto e valorizzato per riportare il livello di consenso del centrosinistra all’altezza della sua capacità egemonica.
In questa prospettiva, attestarsi nella impopolare difesa ad oltranza delle liste bloccate, in nome di una presunta e pretesa superiorità dei partiti, pare assolutamente inopportuno, non perché esse siano di per sé costituzionalmente illegittime, come ha chiarito la Corte costituzionale nelle due sentenze nn. 1/2014 e 35/2017, ma per la cattiva prova che esse hanno dato di sé, contribuendo ad allargare il solco tra elettori ed eletti.
Quali alternative? Scartata la soluzione di sorteggiare gli eletti (dall’«uno vale uno» all’«uno vale l’altro»), per la decisiva obiezione che avremmo parlamentari che non sarebbero chiamati a rispondere del potere politico loro attribuito, giocoforza è tornata in auge la proposta di reintrodurre il voto di preferenza. Evidentemente un paese senza memoria ha dimenticato le ragioni che indussero la stragrande maggioranza degli elettori prima a ridurre, poi ad abrogare le preferenze nei referendum elettorali del 1991 e del 1993. Ragioni che sono vieppiù oggi valide. Difatti, il voto di preferenza: aumenta i costi (talora nascosti e quindi illeciti) delle campagne elettorali, tanto più in circoscrizioni elettorali estese come quelle risultanti dalla recente riduzione del numero dei parlamentari; alimenta i rischi di corruzione e di voto di scambio (specie nelle regioni meridionali dove è statisticamente dimostrato che ad esso si fa maggiore ricorso); aumenta la competizione all’interno dei partiti, degradandoli a meri comitati elettorali e contribuendo così a renderli ancora più disgregati di quanto oggi siano. Infine, non è vero che le preferenze comportino magicamente un miglioramento della classe politica, come se nel paese che primeggia per economia sommersa, evasione fiscale, abusivismo edilizio, privilegi corporativi e rendite parassitarie esistesse una società civile migliore della classe politica che la rappresenta. I risultati anche di queste ultime elezioni regionali, dove il voto di preferenza è previsto, dimostrano la diffusione del peggiore clientelismo politico, con “signori delle preferenze” che, specie se incandidabili, riescono a spostare interamente i loro pacchetti di voti a parenti e sodali.
E allora dobbiamo tenerci le liste bloccate? No. C’è una terza via: il collegio uninominale, in base al quale il partito presenta un unico candidato in una parte circoscritta del territorio. Esso, infatti, permette di avvicinare gli elettori all’eletto, specie se espressione di quel territorio anziché “paracadutato”; impone ai partiti una migliore selezione delle candidature; annulla la competizione all’interno del partito, con conseguente riduzione delle spese elettorali dei candidati.
È vero che in tal modo i candidati continueranno ad essere scelti dai partiti, ma ciò è quanto accadrebbe anche con il voto di preferenza, con l’aggiunta però che, rispetto ad esso, il collegio uninominale obbliga il partito a selezionare in modo più rigoroso quel solo candidato con cui si presenta e s’identifica, anziché permettere di rinunciare a tale sua essenziale funzione costituzionale (v. Corte costituzionale, sentenza n. 35/2017, 11.2 cons. dir.), lasciandola (talora pilatescamente volentieri) nelle mani degli elettori.
È parimenti vero che, rispetto al voto di preferenza, il collegio uninominale riduce il potere di scelta degli elettori perché unico è il candidato che l’elettore di un partito può scegliere. Ma, come detto, a fronte di ciò vi sarebbe indubbiamente una migliore selezione delle candidature, dato che in un tempo in cui le scelte dell’elettorato sono volatili e sempre più “personalizzate” è illusorio credere che gli elettori scelgano sempre per il partito, subendo il candidato, anziché scegliere il candidato, subendo il partito.
Vi è, infine, un’ultima obiezione: i collegi uninominali sono propri di formule elettorali maggioritarie (a turno unico o doppio) per cui sono incompatibili con l’attuale tendenza verso l’introduzione di una formula elettorale interamente proporzionale. Errore. Non è vero che il collegio uninominale si debba necessariamente abbinare al maggioritario. Esso, infatti, può essere applicato anche a formule proporzionali. È stato così per l’elezione del Senato dal 1948 al 1993 e per l’elezione dei consigli provinciali ed è ora così, in Germania, per l’elezione della camera politica (Bundestag). Certo si tratta di sistemi elettorali tecnicamente diversi in ragione della diversa combinazione tra elemento personale e elemento politico. Ad esempio, il totale dei voti di una forza politica al Senato e nei Consigli regionali era la somma dei candidati dei collegi a tal fine uniti in gruppo mentre in Germania è dato dai voti per la lista (bloccata), per cui, da questo punto di vista, il voto è meno personalizzato. Di contro, mentre al Senato venivano eletti i candidati dei collegi uninominali che avevano ottenuto le migliori percentuali di voto rispetto agli elettori (per cui poteva accadere e di fatto accadeva che taluni collegi uninominali non eleggevano alcun candidato e altri, all’opposto, più di uno), in Germania, anche se i seggi sono attribuiti in base al voto proporzionale, nella loro assegnazione si parte dai candidati dei collegi, anche quando eccedenti rispetto alla percentuale di voto ottenuta dal partito corrispondente (con successive compensazioni che spiegano perché il Bundestag è oggi composto da 709 deputati rispetto ai 598 previsti). Infine in Germania è previsto il voto disgiunto invece escluso nel nostro paese, dove per l’appunto non vi erano liste e l’identificazione tra partito e candidato era piena.
Si tratta di profili tecnici sui quali, volendo, si potrà tornare ma che lasciano intatto l’assunto per cui è possibile conciliare collegi uninominali e ripartizione proporzionale dei seggi.
Infine, se si vuole affrontare il problema della selezione delle candidature in modo serio e completo, si deve intervenire legislativamente perché essa sia il risultato di un processo democratico all’interno delle forze politiche, anziché il frutto di metodi opachi e autoritari. È l’annoso problema della democrazia all’interno dei partiti che va risolto sviluppando quel “metodo democratico” cui fa riferimento l’art. 49 Cost. in modo più incisivo di quanto finora accaduto (d.l. 149/2013).
Ma questa è un’altra storia, su cui presto si avrà modo di ritornare.