di Vittorio Ferla
Abbiamo letto in questi giorni valanghe di dichiarazioni sulla scissione di Renzi dal Pd e sulla costituzione di un nuovo soggetto politico, Italia Viva. La gran parte di questi commenti ha avuto finora il difetto di ispirarsi a valutazioni di tipo psico-comportamentale o morale. Narcisismo, egotismo, spregiudicatezza, infantilismo, superficialità, machiavellismo e via elencando. Questi i connotati attribuiti al leader che ha deciso di procurare la lacerazione. Ma possiamo accontentarci di archiviare così la questione? A differenza di quanto affermato dal vicesegretario del Pd Orlando la sensazione è che qualche problemino di tipo storico e culturale ci sia.
Che cosa ci insegna lo stato dei sistemi politici dei principali paesi europei?
Il primo punto su cui riflettere è lo stato dei sistemi politici nei paesi dell’Unione Europea. La crisi dei partiti socialisti – sulla quale Libertà Eguale si è già soffermata con le Tesi del 2018 – è un dato di fatto. A questa crisi si aggiunge la forte instabilità dei governi.
In Francia, per esempio, prima le elezioni politiche (con il successo di Macron) e, successivamente, le elezioni europee (con un conferma del quadro esistente) raccontano una novità clamorosa. Il partito socialista francese – quello che raggiunse l’apice del successo con Francois Mitterand e che rappresentava praticamente in toto il polo progressista – si attesta intorno al 6% dei consensi elettorali. Stessi numeri per La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, partito di sinistra radicale. Il partito di Emmanuel Macron, En Marche – che nasce proprio da una fuoriuscita dal PSF – si attesta al 22-23%. Grande novità è rappresentata dai Verdi con un consenso intorno al 13-14%. Ovviamente non è che in Francia il riformismo e il progressismo siano finiti. Ma è radicalmente mutata la forma della rappresentanza.
In Germania succede qualcosa di simile. Sul versante di centrodestra il primo posto è saldamente occupato dalla CDU (che comunque perde punti rispetto al 2014). Sull’altro versante – che in Italia definiremmo di centrosinistra – ritroviamo i Verdi con il 20 per cento: votati soprattutto dagli elettori tra i 18 e i 24 anni, non hanno più i connotati radicali e regressivi di un tempo, ma hanno sviluppato semmai un approccio moderno di ispirazione progressista e liberaldemocratica. Con uno dei peggiori risultati della loro storia, i Socialisti – quelli del programma di Bad Godesberg del 1959 – sono solo terzi intorno al 16%.
Il vento della Brexit soffia sui Laburisti
Sembra poi fantapolitica quello che è accaduto nel Regno Unito negli ultimi tre anni a partire dalla Brexit. Senza farla troppo lunga basti ricordare il terremoto delle recenti elezioni europee. Non soltanto il Brexit Party di Nigel Farage, fondato solo poche settimane prima della scadenza elettorale, è stato di gran lunga il partito più votato, con i Conservatori ridotti a essere il quinto partito.
Anche il glorioso Labour Party guidato da Jeremy Corbyn – troppo indeciso sulla Brexit ma fin troppo deciso sul ritorno al passato veterosocialista – è crollato al 15%, superato dai Liberal Democratici, con il 20 per cento dei voti, e avvicinato dai Verdi, che hanno ricevuto il 12,5% dei voti. I due più grandi partiti del Regno Unito – quelli che da sempre governano il paese – sono andati insomma molto male. Ma il risultato di Corbyn risulta persino più stupefacente perché non ha saputo approfittare della difficoltà degli avversari storici rovinando malamente a favore di forze più moderne e innovative.
L’“eccezione” iberica
In Spagna, in controtendenza rispetto al Nord Europa, i Socialisti del primo ministro Pedro Sánchez (PSOE, il principale partito di sinistra) hanno ottenuto quasi il 33 per cento dei voti. Ma si sono presentati all’elettorato come un “partido moderado” capace di garantire quella che in Italia chiameremmo “vocazione maggioritaria”. Non a caso dunque l’alleanza con Podemos, la formazione politica di sinistra populista guidata da Pablo Iglesias che ha ottenuto il 10%, risulta così complicata. Per Sánchez è la seconda importante vittoria dopo quella ottenuta alle elezioni politiche di fine aprile, che avevano invertito una tendenza che durava da tempo e che vedeva il PSOE in grandi crisi, ma il quadro politico spagnolo resta molto incerto.
In questo scenario europeo sommariamente descritto, il Portogallo appare come l’oasi felice della sinistra. il Partito Socialista del primo ministro António Costa ha ottenuto il 33,5% e il suo principale alleato, il Blocco di Sinistra (BE), il 9,7%. Il Partito Socialista, forza politica di governo, negli ultimi anni è riuscito a conciliare politiche di una moderata austerità e misure a favore delle fasce più deboli.
Chi governa l’Europa?
In primo luogo, ovviamente, questi numeri ci parlano della grande frammentazione dei partiti nei sistemi politici nazionali. Assai raro, di conseguenza, ritrovare governi stabili. Tranne che nel caso della Francia che si è dotata, però, di un sistema elettorale e istituzionale formidabile che compone in una mirabile sintesi i pregi del maggioritario a doppio turno con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Ma su questo torneremo dopo.
In secondo luogo, appare evidente che i partiti socialisti tradizionali subiscono un’emorragia di consensi e non sembrano capaci in questa fase di rappresentare, da soli, né la domanda di sicurezza e protezione né quella di modernizzazione e sviluppo. Ovviamente, si può sempre contare sull’alta mobilità dell’elettorato per sperare di capovolgere questa situazione, ma non possiamo essere certi che ciò accada.
In terzo luogo, sembra che alla direzione “centrifuga” dei movimenti populisti, caratterizzati dalla retorica contro gli establishment nazionali ed europei, dall’idea di una società chiusa agli immigrati e dal peronismo sociale centrato sulla rivincita degli stati nazionali, si sia contrapposta una direzione “centripeta” eguale e contraria, caratterizzata dalla fiducia nell’Europa e nelle sue istituzioni e dalla convinzione che solo in questo solco sia possibile dare un futuro di benessere e di sviluppo ai cittadini europei.
L’Italia, l’Europa e il Partito Democratico
L’Italia ha seguito la direzione “centrifuga” per ben 14 mesi con l’esperimento di governo giallo-verde che rischiava di portarla in un mix improbabile di sovranismo alla Visegrad e di socialismo venezuelano. L’Europa, nonostante la frammentazione degli elettorati nazionali, ha resistito, esprimendo una direzione “centripeta”: con la coalizione “Ursula” ha raccolto le forze europeiste – socialisti, verdi, liberaldemocratici e popolari – lasciando ai margini i sovranisti di destra e i populisti di sinistra. La grande novità rappresentata dal voto del M5s per Ursula von der Leyen ha spostato di fatto gli equilibri anche in Italia, aprendo alla possibilità di integrare i grillini in un governo di chiara ispirazione europeista.
Tutto questo serve anche a sottolineare quanto sia cambiata l’Europa rispetto al tempo in cui in Italia cominciammo a concepire l’idea di un partito democratico a vocazione maggioritaria, erede delle diverse culture riformiste italiane e membro della grande famiglia socialista europea. In quegli anni, i sistemi politici dei paesi europei erano caratterizzati da un tendenziale bipolarismo tra un polo popolare e conservatore e un polo socialista e progressista.
Questi due poli in Parlamento europeo realizzavano una sorta di asse consociativo virtuoso nel nome del comune destino comunitario. Come abbiamo visto, dopo le crisi economiche e l’emersione dei populismi, il quadro è profondamente cambiato. Nella progressiva dispersione e frammentazione dei sistemi politici europei, lo schema bipolare sembra messo in discussione e, con esso, la capacità dei partiti-perno di rappresentare la vocazione maggioritaria nel proprio schieramento.
L’esperienza della stagione di governo riformista
Va ricordato con maggior forza, proprio in questi giorni deliranti, che il sogno del Lingotto si è realizzato in Italia una sola volta con il governo guidato da Matteo Renzi. Una stagione di governo riformista nella quale il partito democratico è riuscito a realizzare finalmente la vocazione maggioritaria, ovviamente nei limiti delle condizioni date e delle capacità degli interpreti. Purtroppo per l’Italia, non ci era riuscito neanche Veltroni – che pure, con il discorso del Lingotto, ha avuto l’enorme merito di tracciare l’orizzonte verso il quale ci siamo incamminati –avendo patito una sconfitta contro Berlusconi nel 2008 alla prima uscita elettorale del Pd.
Bisognerebbe ricordare, a questo punto, che subito dopo le dimissioni di Veltroni, la segreteria di Bersani si caratterizzò per una singolare andatura: da una parte, diede sostegno al governo Monti (arruolando Fassina come viceministro dell’economia) riconoscendo l’urgenza di attuare un’agenda economica europea dopo l’immobilismo del centrodestra; dall’altra, si rese protagonista di un “repulisti” del veltronismo sia sul piano ideale che su quello del personale politico in occasione delle elezioni politiche “non vinte” del 2013.
Proprio alla fine di quell’anno Matteo Renzi vince le primarie del Partito Democratico con un programma squisitamente riformista e liberaldemocratico (inaugurato già nelle primarie perse nel 2012) e, nell’anno successivo, va al governo e stravince le elezioni europee con il 40%. Non a caso, il 2014 viene considerato da alcuni come l’anno in cui nasce davvero il Partito Democratico.
La storia si ripete due volte?
Questa ricostruzione – volutamente sommaria – serve qui per riflettere sulla certezza di quanti, confidando nella contendibilità del Pd – vedono nell’alternanza Bersani-Renzi alla guida del Partito Democratico – ovvero l’alternanza tra una istanza socialdemocratica tradizionale e una istanza riformista liberale – l’esempio di ciò che potrebbe ripetersi: ovvero la preparazione di una futura nuova fase in cui un nuovo leader riformista potrebbe soppiantare l’attuale segreteria Zingaretti.
Uno scenario che in teoria nessuno potrebbe escludere. Chi crede in questa possibilità ritiene correttamente la “scissione” – e dunque la rinuncia a ritentare la conquista della leadership del Pd – un grave errore politico. Allo stesso tempo chi si affida a questa prospettiva lo fa sulla base di una scommessa: che le condizioni politiche di oggi siano uguali a quelle di ieri. Ma è davvero così?
A mio modesto avviso, varrebbe la pena valutare con attenzione alcune differenze non secondarie.
Dentro il Partito democratico: alternanza o dicotomia?
La prima è questa. Bersani vince dopo la sconfitta e l’abbandono di Veltroni, senza che questi abbia fatto esperienza diretta di governo in qualità di segretario del Partito Democratico. Viceversa Renzi ha governato eccome. Molti ritengono addirittura che con la sua premiership l’Italia abbia conosciuto per la prima e unica volta l’esperienza di una straordinaria stagione riformista (proseguita in parte da Gentiloni).
La seconda differenza è che oggi l’attuale maggioranza del Pd (comprensiva dei fuoriusciti) ritiene quell’esperienza, nel migliore dei casi, come la presenza insopportabile di un intruso in casa propria e, nel peggiore dei casi, come un “tumore” nel corpo sano della sinistra.
Insieme all’avversione personale al leader Renzi, poi, costoro hanno anche fatto esperienza del riformismo, ritenendolo una strada completamente alternativa e opposta a quella della tradizione della sinistra italiana. Una strada assai pericolosa che non bisogna più percorrere.
Ecco l’altra differenza cruciale. Proprio per evitare che tutto ciò si ripeta bisogna oggi creare le condizioni per controllare meglio il partito, evitando che possa essere nuovamente conteso e contendibile, ricadendo nelle mani dei riformisti. Non si parla a caso del “nuovo” Pd.
Prima di tutto un nuovo statuto ispirato alla consociazione oligarchica: l’esercizio delle primarie va limitato il più possibile agli iscritti e la figura del segretario del partito (primus inter pares delle correnti) deve essere distinta da quella di candidato premier. In questa concezione non c’è più il leader scolpito dalla cultura maggioritaria né la partecipazione libera degli elettori non iscritti.
Sul piano delle geometrie e architetture politiche, il “nuovo” Pd deve ricostruire un “campo largo”, se possibile mischiando il proprio elettorato con quello dei Cinquestelle fino al progressivo assorbimento in una nuova casa comune a presidio della sinistra.
Sul piano programmatico il “nuovo” Pd dovrà farsi alfiere del ritorno della spesa pubblica come leva dello sviluppo e della tassazione dei ricchi come leva dell’uguaglianza.
Sul piano istituzionale, il corollario è il ritorno esplicito al sistema proporzionale. Al quale consegue la rivincita delle pratiche consociative dei partiti a scapito della libertà dei cittadini di scegliere il governo e della capacità dei governi di prendere decisioni responsabili.
Se questi sono i tasselli del mosaico, appare assai complicato pensare che il Pd sia ancora la stessa medaglia nella quale si alternano in modo fisiologico una faccia più socialdemocratica e una più liberale. In altri termini, chi si oppone oggi al riformismo ha in mente un partito completamente diverso dal partito a vocazione maggioritaria. Ma se tutto questo è vero gli spazi di agibilità politica per i riformisti diventano davvero angusti.
Il trauma originario: il referendum costituzionale
D’altra parte, veniamo da una lacerazione ben più profonda: quella provocata dal risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. In quella occasione, una porzione significativa del Partito Democratico si oppose ferocemente alla proposta Boschi. Le vicende le conosciamo bene e non è il caso di ritornare sui fatti di cronaca.
Quell’evento ha sancito però due effetti sconvolgenti.
Da un lato, ha messo una pietra tombale sulle riforme costituzionali che avrebbero potuto modernizzare l’Italia dopo trenta anni di dibatti. Riforme per le quali il Partito Democratico, almeno fino a un certo momento, si era battuto.
Dall’altro lato, venuta meno la prospettiva del cambiamento istituzionale e stabilizzato un sistema sostanzialmente proporzionalistico, i nemici della vocazione maggioritaria del Pd hanno avuto finalmente il via libera per dimenticare il Lingotto e per rispolverare la vecchia anima identitaria della sinistra tradizionale.
Una sfida per tutti i riformisti
Difficile per i riformisti riemergere dalle ferite di quella sconfitta. Allo stesso modo, è difficile per i riformisti, dopo avere sperimentato i ‘fasti’ del governo, rinunciare a quella prospettiva. La base di militanti e di elettori che negli anni ha fatto esperienza di riformismo ha voglia oggi di riproporre e ripetere presto quella stagione.
Le vicende di questi giorni dovrebbero leggersi meglio così. E rappresentano una sfida per tutti. Per quelli che se ne vanno, diretti verso un futuro ancora ignoto. E per quelli che restano, in un presente molto meno ospitale.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).