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Il dramma di Gorbaciov, tra socialismo e modernità

Claudio Petruccioli giovedì 1 Settembre 2022
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di Claudio Petruccioli

Su gentile segnalazione dell’autore, riproponiamo questo articolo pubblicato a novembre del 2009, per il ventennale della caduta del Muro di Berlino, su Le ragioni del socialismo, la rivista fondata e diretta da Emanuele Macaluso

 

A venti anni dalla “caduta del muro” si sono riproposti anche a me – ovviamente – molti interrogativi derivanti da quell’evento cruciale per la storia e per il futuro del mondo. Ne considero, qui, uno: quale significato ha il modo in cui il comunismo è finito, è “collassato”? Avverto che di qui in avanti non userò l’espressione “comunismo”; ma quella più circostanziata e delimitata di conio brezneviano: vale a dire “socialismo reale” o “socialismo realizzato”. La formula è stata trattata con ironia e fastidio da molti comunisti italiani. Va riconosciuto però che, per quanto arrogante e fastidiosa, aveva un fondamento. Quella sovietica era, effettivamente, la sola “costruzione del socialismo” esistente, modello anche per le esperienze (Cina, Cuba) che non derivavano direttamente dalla rivoluzione del 1917 e dalla espansione militare dell’URSS.

In quella altezzosa auto-definizione del vertice sovietico, si può ritrovare l’eco – per quanto lontana e distorta – di quel “socialismo scientifico” che costituiva la massima aspirazione e il dichiarato programma di Karl Marx. Prima che tanti trasformassero il suo pensiero in una dogmatica immodificabile e insostituibile (quindi l’opposto della scienza) Marx concepiva e presentava così il suo pensiero: una teoria convinta di aver scoperto e messo a punto leggi che regolano la dinamica della società e l’andamento della storia; ma, come qualunque altra teoria scientifica, doveva rispettare lo statuto della scienza, a cominciare dalla sperimentazione che verifica (ma anche falsifica).

Ecco: a me sembra che il “socialismo reale” sia finito al modo come cade e viene abbandonata una teoria scientifica falsificata dalla esperienza al punto tale da non poter essere più sostenuta da nessuno, neppure fra coloro che a lungo erano stati suoi accesi e convinti seguaci. Quella fine ha avuto i caratteri dell’esaurimento, dell’estinzione; non ha coinciso con i traumi e le violenze che, di solito, accompagnano la scomparsa di stati e di imperi, quando la loro potenza viene sconfitta. C’è una differenza fra falsificazione e sconfitta; soprattutto sono diverse le conseguenze che derivano dall’una e dall’altra. Per questo motivo – credo – non si trova, nella storia moderna, nulla di paragonabile alla “semplicità” oserei dire alla “ovvietà” del modo in cui è avvenuta la fine del “socialismo reale”, dell’impero sovietico; e, comunque, alla assenza di violenza e di sangue che l’ha contraddistinta. Imperi come quello asburgico, quello ottomano o anche quello zarista sono crollati dopo la grande carneficina della prima guerra mondiale e in conseguenza – innanzitutto – di sanguinosissime sconfitte militari. Idem per quanto riguarda progetti come quello napoleonico o quello hitleriano. La fine dell’assolutismo, dell’”ancien régime”, è stata accompagnata in Inghilterra e in Francia da rivoluzione e terrore; e c’è voluta una guerra civile – in termini militare la prima guerra “moderna” – per costituire gli Stati Uniti d’America. Non mi sembra che negli ultimi secoli ci siano stati cambiamenti rilevanti – anche meno rilevanti della fine del “socialismo reale” – senza un uso della violenza su larga scala. E’ ancor più vero se si risale indietro nel tempo.

Si dirà: la violenza, la eliminazione di milioni di persone aveva già tragicamente segnato tutto l’”esperimento”, tutto il tentativo di realizzare la teoria del “socialismo scientifico” nei fatti, di dimostrarne la “necessità storica”. Vero. Si può aggiungere che molte voci avevano argomentato efficacemente contro quella teoria, ne avevano anticipato aporie e degenerazioni che sarebbero emerse in corso d’opera. E anche che l’Impero era stato duramente contenuto e contrastato sul concretissimo terreno della “potenza” durante i decenni della “guerra fredda”. Vero anche questo. Ma chi elabora o abbraccia un programma che considera “scientifico” ed è convinto della sua validità, non si inchina alle obiezioni o alla ostilità di altri scienziati; né si arrende di fronte a costi che la sperimentazione richieda e imponga. Solo la sua falsificazione sperimentale, lo convincerà a prendere atto del fallimento, a non insistere.

La “tensione scientifica” insita nell’originaria teoria di Marx ha influenzato – e non poteva essere altrimenti – tutta la “costruzione del socialismo”. In molte occasioni ha spinto a una violenza enorme e spietata; ma, alla fine, ha anche indotto a concludere in modo non violento tutta una parabola storica e politica. Perché vada così, è però necessaria una soggettiva disposizione a riconoscere i dati sperimentali, la realtà dei fatti. Senza questa “buona fede” è impossibile – anche di fronte alle “prove sperimentali” più evidenti – che un progetto finisca in modo non conflittuale. Si può, dunque, affermare che il “socialismo reale” è finito in modo non violento a causa di due fattori: non hanno cessato di agire gli echi lontanissimi dell’originario “socialismo scientifico”; e un uomo, Michail Gorbaciov, ha capito, ha agito “in buona fede”, si è assunto la responsabilità.

Dopo lo scioglimento del PCUS (di cui è stato l’ultimo segretario generale) e la fine dell’URSS, Gorbaciov non ha più avuto alcun potere. In genere viene considerato un personaggio finito con il mondo di cui era stato parte. Soprattutto viene considerato un perdente, uno sconfitto. L’immagine che meglio sintetizza questa impressione – e che fece a suo tempo enorme effetto – è quella in cui, con espressione che appare attonita, ascolta uno Eltsin ruvido e arrogante che, con l’indice puntato, gli detta condizioni all’indomani del golpe dell’agosto del 1991.

Ma è vero che Gorbaciov è un perdente? E’ vero che quel che ha fatto (e non fatto) è dovuto a debolezza, a incapacità più che a lucidità e determinazione? Le testimonianze e le celebrazioni a venti anni dalla caduta del Muro suggeriscono tutt’altro. In una intervista (la Repubblica, 8 novembre) il generale Jaruzelski rievoca la situazione di allora: “Al 7 ottobre 1989, la festa per i 40 anni della Ddr, stupiti Gorbaciov e io ascoltammo Honecker: tutto autocelebrazione. Poche ore dopo i giovani della Fdj (l’organizzazione giovanile del regime) sfilarono con le fiaccole e gridarono ‘Gorby, Gorby, aiuto!’ Lassù, sulla tribuna, io Mazowiecki e Michail Serge’evic ci capimmo con uno sguardo…Gorbaciov appoggiava la svolta polacca, si fidava di me e dei leader di Solidarnosc. L’ostilità di Honecker, Husak, Zhivkov, Ceausescu complicava la sua partita con i vertici militari, inquieti del tramonto dell’impero”. La invocazione di aiuto ricordata da Jaruzelski, Gorbaciov l’aveva già sentita a Pechino, a metà maggio di quello stesso anno, durante lo “storico viaggio” che cadde nel pieno della crisi della Tienanmen. Nella bella corrispondenza da Berlino di quest’ultimo 10 novembre, Bernardo Valli scrive: “Arrivata nel mezzo del ponte di ferro di Bornholmer strasse (il luogo dove si aprì il primo varco nel Muro), a cavallo della ferrovia, la cancelliera (Angela Merkel, fino a venti anni fa “dall’altra parte”) ha ringraziato ad alta voce Gorbaciov. Senza il quale, ha detto in sostanza, la rivoluzione pacifica del 1989 non sarebbe stata possibile. E la folla ha scandito «Gorby, Gorby», come accadeva a Berlino e a Lipsia durante le manifestazioni di vent’anni fa”.

Non c’è bisogno di aggiungere nulla. E’ capitato anche a me di sentir dire, perfino da chi non era filosovietico, e neppure comunista che Gorbaciov “non è stato capace di salvare…”; intendendo, evidentemente, l’Impero, lo Stato, la loro Potenza, il suo proprio Potere; o la Grande Speranza che tanti incolpevoli e vessati, in ogni parte del mondo, avevano fatto coincidere con l’URSS. Ma Gorbaciov ha salvato ben di più: ha affermato nei fatti quella che – se non sbaglio – lui stesso ha più volte definito una idea “umanistica”; secondo cui il potere, e la forza che ne deriva non sempre consentono di ottenere i risultati ricercati e auspicati. Affidarsi comunque al potere e alla forza può, anzi, provocare danni e sofferenze inaudite senza peraltro risolvere nulla. Ci sono momenti nei quali si deve fare l’opposto: si devono contenere, e se necessario sacrificare gli impulsi del potere e le tentazioni della forza.

Gorbaciov ha capito che, proprio per il potere di cui disponeva, toccava a lui la responsabilità maggiore in uno dei momenti più rischiosi della storia. Ciò è stato possibile perché lui non era un estraneo a quella realtà. Di lì veniva, anzi lì era nato, aveva sempre vissuto, era stato selezionato; fino ad essere investito della più alta carica e funzione. Gorbaciov ci ha messo poi il suo, cioè sé stesso; ma è stato un  “prodotto” di quel sistema. Il suo progetto non era dimissionario e liquidatorio, come ancora oggi non pochi pensano; né lui era un ingenuo superficiale al punto da non capire dove stava. Mirava a riformare, aprire, disincagliare il Paese alla cui guida era arrivato. Voleva cambiare, anche perché senza cambiare non poteva andare avanti. E credo sperasse, con tutte le sue forze di potercela fare. Conosceva però più di chiunque altro problemi, debolezze, rigidità della società, dello Stato, dell’Impero in cui agiva; conosceva la profondità della sclerosi e la enorme pesantezza delle inerzie e dei conservatorismi. Sapeva che il suo proposito era difficilissimo, quasi disperato. Il suo enorme merito è stato di averlo affidato alle risorse della ragione, della trasparenza, della convinzione; in una parola della “verità” che dimostra e non alla “forza” che impone. E di aver deciso – credo fin dall’inizio – che, nel caso di insuccesso, non avrebbe in nessun caso imboccato la strada della catastrofe distruttiva; il “muoia Sansone con tutti i Filistei” o l’incendio del Valhalla. Avrebbe mantenuto fermi i riferimenti su cui cercava di orientare la sua azione di riformatore: glasnost, interdipendenza, pace, umanesimo. Sono convinto che anche quando sembrava ammutolito e vinto, davanti all’indice aggressivo di Eltsin, Gorbaciov avesse ben chiare queste cose. Vent’anni dopo mi sembra si possa pensare e dire che Gorbaciov non è chiuso dentro un passato finito e archiviato; e non è una “brava persona” rivelatasi non adeguata al compito. Gorbaciov non è una parentesi fra il potere di Breznev e quello di Putin; è ben più avanti del primo, ma anche del secondo. Egli si colloca in un punto drammaticamente alto della irrisolta tensione fra il socialismo e la libertà, fra la modernità e il socialismo; tensione presente già nel pensiero del fondatore del “socialismo scientifico”. Quella tensione insopprimibile riemerge in modo acuto quando finisce il “socialismo reale” e avrebbe potuto provocare disastri e lutti inauditi. Gorbaciov ne è testimone tutt’altro che ingenuo e sprovveduto; e, da protagonista consapevole, mostrò di avere lucidità e fermezza per far sì che quella del socialismo reale fosse la prima fine non violenta di un impero e di una “sperimentazione” storica. Gli è dovuto un posto eminente nella storia del socialismo come idea e forza di libertà; storia che non credo finita.

Per tornare – concludendo – al gioco dei precedenti storici, dirò quindi che Gorbaciov non è stato Romolo Augustolo. E non è stato neppure Costantino; il quale, aprendo alla religione e alla chiesa cristiana, guadagnò all’Impero un periodo di sopravvivenza. Non so se qualcosa di paragonabile sarebbe stata possibile nell’URSS sul finire del XX secolo. C’è chi pensa di sì; e rimprovera a Gorbaciov di non averlo tentato e neppure immaginato; portando ad esempio la Cina, il suo straordinario sviluppo economico in presenza di una assoluta continuità del potere. E’ vero: se ci sono oggi dei “costantiniani” sono i cinesi; la loro apertura alla “libertà economica”, il loro “compromesso” è in nome della continuità di un potere e – fino ad ora e in questa logica – ha avuto successo. Anche Costantino riuscì a prolungare la vita dell’impero. Quello d’occidente, per la verità, non gli sopravvisse per molto: poco più di un secolo. Quello d’oriente, invece, toccò il millennio. Come sarà in questo caso? Pechino rileverà nel prossimo millennio Mosca come Bisanzio si sostituì a Roma? Lo sapranno solo coloro che verranno e vedranno. A noi è consentito solo fare i conti con il tempo che viviamo e le prove che dobbiamo affrontare. Come ha fatto Gorbaciov.

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