di Danilo Di Matteo
In seguito alla pandemia da Covid-19, si avverte l’esigenza diffusa di una scuola e di una sanità pubbliche robuste e, più in generale, di politiche neokeynesiane, pur se su scala più grande rispetto al singolo Stato nazionale. E, come è noto, il compromesso socialdemocratico, oggi in crisi ovunque, si è basato su un consistente intervento statale in ambito economico e sociale. Per non dire dei regimi dell’Est, o della stessa Cina, per i quali si è evocato lo spettro di una sorta di capitalismo di Stato o comunque, nel caso di Pechino, di un notevole dirigismo statale.
Salvatore Veca, nel libro Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista (2019), individua due grandi tendenze: “un’interpretazione che potremo per convenzione definire libertaria o liberista” e quella “dell’egualitarismo democratico o della giustizia sociale come equità”. E a proposito della prima cita Robert Nozick: “Gli individui hanno diritti: ci sono cose che nessuna persona o gruppo di persone può far loro (senza violare i loro diritti) […] Quanto spazio lasciano allo Stato i diritti degli individui? […] Le nostre conclusioni principali sullo Stato sono che uno Stato minimo, ridotto strettamente alle funzioni di protezione contro la forza, il furto, la frode, di esecuzione di contratti, e così via, è giustificato; che qualsiasi Stato più esteso violerà i diritti delle persone di non essere costrette a compiere certe cose, ed è ingiustificato; e che lo Stato minimo è allettante oltre che giusto”. Per l’interpretazione alternativa, invece, “proprio per onorare la promessa dell’uguale libertà delle persone morali, l’agenda pubblica deve implicare politiche che mirino a rendere meno disuguale possibile il disuguale valore che l’uguale libertà ha per cittadini e cittadine”, in quanto “il valore dell’uguale libertà può” “variare al variare delle condizioni di vantaggio o svantaggio sociale”, “per cui le persone possono trovarsi, senza loro responsabilità, in condizioni e opportunità differenti, sanzionate socialmente come disuguaglianze”. In tal caso, infatti, è consistente il rischio che la comunità dei cittadini, intesi come liberi e eguali, si delinei come la comunità illusoria indicata da Marx nel saggio sulla Questione ebraica.
Il mondo anglosassone, comunque, ci mostra come pubblico e statale non siano sinonimi. Poi, però, di solito l’intervento pubblico nella sfera sociale si nutre dei fondi provenienti dalle imposte: può non essere gestito dallo Stato, ma l’esazione fiscale è in genere statale (o locale).
Al di là di ciò, il dilemma tratteggiato da Veca si mostra nei fatti più insidioso e complesso. Spesso, ad esempio, nel corso dei secoli, sono stati proprio i ceti popolari a vivere come vessatorio e ingiusto il fisco e, più in generale, a doversi difendere da ordinamenti statuali parassitari o corporativi e comunque predatori.
Qui giunti, ci offre una suggestione intrigante Carl Schmitt, quando rileva che, durante il secolo da lui concepito come liberale, il XIX, lo “Stato diventa società”. E in effetti, non sono mancati, ad esempio, gruppi cattolico-liberali che evocavano, spesso negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, più società e meno stato. Ma “il sociale” seduce anche le sinistre. Quelle più radicali, poniamo, sognano da decenni “un bagno nel sociale”: nelle periferie, fra gli immigrati, nelle aree multiformi del disagio e della marginalità. La società, più che lo Stato, è il sogno di tanti gauchiste. Vi erano addirittura settori del terrorismo rosso (quelli movimentisti, in genere) che si ponevano l’obiettivo di condizionare il Palazzi d’inverno, più che di conquistarlo. Per contro, Margaret Thatcher giungeva a negare l’esistenza della società, in nome degli individui.
L’esperienza neoconservatrice britannica e nord-americana degli anni Ottanta, d’altro canto, pur caratterizzata, in particolare negli States, da toni bigotti o apocalittici, è stata vissuta da una fetta non trascurabile del popolo minuto come un evento di liberazione rispetto all’oppressione (soprattutto fiscale) social-burocratica. Troppe volte, infatti, la macchina dello Stato sociale diveniva sorda, cieca e onnivora ed era volta soprattutto ad alimentare se stessa.
L’anelito libertario, in realtà, è costitutivo da secoli della sinistra e, come un’araba fenice, è pronto a riemergere. Oggi, pur non potendo riproporne una versione ingenua e superata, occorrerebbe tornare a farvi i conti, in maniera più adulta e consapevole.
Psichiatra e psicoterapeuta con la passione per la politica e la filosofia. Si iscrisse alla Fgci pensando che il Pci fosse già socialdemocratico, rimanendo poi sempre eretico e allineato. Collabora con diversi periodici. Ha scritto “L’esilio della parola”. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher (Mimesis 2020), Psicosi, libertà e pensiero (Manni 2021), Quale faro per la sinistra? La sinistra italiana tra XX e XXI secolo (Guida 2022) e la silloge poetica Nescio. Non so (Helicon 2024) È uno degli autori di Poesia e Filosofia. I domini contesi (a cura di Stefano Iori e Rosa Pierno, Gilgamesh 2021) e di Per un nuovo universalismo. L’apporto della religiosità alla cultura laica (a cura di Andrea Billau, Castelvecchi 2023).