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Il futuro della vocazione maggioritaria: quattro domande ai riformisti

Ranieri Bizzarri sabato 10 Aprile 2021
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di Ranieri Bizzarri

 

Con brevità anglosassone ed ammirevole efficacia, Pietro Ichino ha delineato in due stringati editoriali la necessità di un approccio liberaldemocratico (lib-dem) ed il suo spazio politico.

In estrema sintesi:

1) il pensiero lib-dem è una evoluzione sofisticata sia del pensiero liberale classico che di quello socialista democratico;

2) l’approccio lib-dem può essere declinato in una forma più di “destra” o di “sinistra”, a seconda della fase economico/sociale: la destra lib-dem pone l’accento sulla contendibilità delle funzioni, la sinistra lib-dem sull’eguaglianza delle opportunità ;

3) solo il maggioritario garantisce che la strategia riformista lib-dem si dispieghi in modo efficiente;

4) compito di chi ha a cuore la prospettiva lib-dem, sia a destra che a sinistra, è quello di conquistare la maggioranza nel proprio schieramento.

Gli ultimi due punti suggeriscono che sia poco efficace la formazione di nuovi partiti di ispirazione pienamente lib-dem a sinistra come a destra. Per la sinistra, questo corrisponde a tentare di recuperare il PD ad una guida riformista.

Il ragionamento di Ichino è condivisibile, e sintetizza un filone di pensiero che da anni viene elaborato in ambito riformista, specie a sinistra. In un recente incontro di Libertà Eguale, Claudio Petruccioli ha brillantemente ripercorso alcuni eventi cardine della storia della sinistra degli ultimi anni di cui è stato osservatore diretto, ed ha concluso che il fallimento della politica Zingaretti-Bettini e la nascita del governo Draghi sono un passo decisivo verso il recupero dell’identità riformista del PD.

Negli stessi giorni, in un editoriale Michele Salvati si è spinto a dire che la dialettica interna del PD, oltre che a essere comune alle altre forze della sinistra democratica occidentale, si articola intorno a due sfumature diverse di riformismo: una più liberale e una più socialdemocratica. Si può parteggiare (anche in modo deciso) per la sfumatura liberale, ma in un ambito maggioritario quello che conta è conquistare il governo del Paese; e Letta, secondo Salvati, deve tenere insieme le due anime e puntare a questo obiettivo.

Spero di aver reso bene il pensiero di persone di rara intelligenza che stimo moltissimo. Mi permetto, tuttavia, di fare un po’ il guastafeste ponendo qualche domanda, cui io stesso non ho risposta. Parto da 5 considerazioni:

1) Come ci dicono tutte le indagini, buona parte dell’elettorato PD e della sinistra tradizionale è costituito da “ceti urbani che vivono di spesa pubblica” (copyright di Giorgio Tonini).

2) Per questi ceti, la rappresentanza politica si esplica – in genere – più attraverso un fattore identitario che di aderenza pragmatica alla mutevole realtà dei nostri giorni. Un esempio surreale è costituito dalla religione animista di Berlinguer, immaginato come principe di un’epoca dorata ed innocente della sinistra (si noti la malcelata soddisfazione di Letta nel farsi apprezzare dai militanti come una persona “che porta un nome carico di responsabilità”, recentemente espressa in una intervista).

3) Questo fattore identitario “di sinistra” è alla base della simpatia, più o meno visibile, verso la “costola della sinistra” M5S, i cui elettori si immaginano delusi dal renzismo o qualche altra sbandata della sinistra, e pertanto da recuperare alla lotta. Michele Serra, ne L’amaca del 7 aprile ne dà mirabile sintesi.

4) Il medesimo fattore identitario impedisce da 25 anni qualunque tipo di accordo politico pragmatico e trasparente con forze antagoniste, ad esempio sulle riforme costituzionali, a vantaggio di tutto il Paese.

5) Il fattore identitario è sempre alla base della ossessiva campagna perché “nessuno rimanga indietro”, quando i ceti deboli della società evitano accuratamente di votare a sinistra; della tiepida adesione alle linee guida del governo Draghi; della visione caricaturale della politica estera come teatro delle forze del bene (es: ONG, Amnesty ecc) cui si contrappongono i cattivi (es: guardia costiera libica) e i loro fiancheggiatori (es: venditori di armi); della ricerca di temi divisivi senza mai comprendere le ragioni della divisione in seno al paese (es: ius culturae).

In sostanza, il fattore identitario – in mancanza di interesse per reali riforme da parte dei ceti di cui sopra – sfocia nel predominio dell’etica sulla politica, che nei casi più deviati genera pure un crudele giustizialismo. Infischiarsene dell’accanimento giudiziario contro Ottaviano del Turco, ma poi chiedere la liberazione di Patrick Zaki, è abbastanza contraddittorio. Spero di aver reso l’idea.

Dunque, adesso siamo al primum vivere, e posso anche condividere che se la sinistra non mette un po’ sotto il tappeto queste contraddizioni, rischia molto nelle prossime elezioni, a partire dalle amministrative. E fare politica, lo so per esperienza diretta, è giustamente anche prassi.

Ma la domanda delle domande è: si può continuare così?

Ed ecco domande più specifiche, a Pietro Ichino, ai compagni ed amici di Libertà Eguale, e a tutti coloro che avranno la bontà e la pazienza di considerare queste mie parole e rispondermi.

1) Stante la composizione dell’elettorato di sinistra (o perlomeno di larga fetta dei suoi militanti) come si fa a far affermare una politica riformista in tempi – perlomeno – medi evitando la palla al piede identitaria e i suoi surreali corollari come l’esaltazione pervicace dell’eguaglianza materiale che genera poi diseguaglianza all’atto pratico?

2) Come diventano maggioritari i riformisti in uno scenario largamente massimalista?

3) Siete d’accordo che il classico approccio di navigare le contraddizioni attraverso un ostentato e rassicurante pragmatismo, tipicamente di natura tecnico/amministrativa (questa mi sembra la cifra di una eventuale leadership di Bonaccini, come lo fu di Gentiloni) assolve solo in modo parziale alla “sete” di riformismo di un paese che, tra qualche mese, potrebbe sembrare appena uscito dal Patto di Varsavia per la devastante situazione economico-sociale?

4) Come si tramuta la dirompente forza riformista del governo Draghi in un fattore di crescita del PD e della sinistra tutta?

Vi segnalo che il segretario del PD, invece che interloquire con il governo e i suoi ministri più rappresentativi per le questioni più importanti in agenda, sta (almeno a leggere i giornali) dedicandosi primariamente a un giro di consultazioni anche con formazioni ectoplasmatiche, in un’ottica (identitaria) di future alleanze “strategiche” (incluso M5S). Per far che? Non sarebbe più opportuno un grande congresso rifondativo del PD e della sinistra, che metta in gioco tutto: linea politica, nome, contendibilità/leadership, e che finalmente spazzi via deliberatamente il richiamo identitario, costi quel che costi?

Cari compagni ed amici, sono rimasto molto più affezionato a quella sera di giugno 2014 in cui prendemmo tanti voti di chi non aveva mai votato a sinistra, più che a quella sera del 1984 in cui il PCI diventò il primo partito per l’emozione della morte di un leader molto amato (ma che adesso andrebbe fatto riposare in pace). E non so rassegnarmi alla perdita della vera vocazione maggioritaria: essere potenzialmente votabili da quasi tutti gli italiani. C’est pour quand?

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