di Mauro Piras
L’Assemblea nazionale del PD ha approvato il “Manifesto per il nuovo PD Italia 2030”. Ora inizia il vero e proprio confronto congressuale. Era davvero necessario riscrivere il Manifesto del PD? Forse no. Le due gravi sconfitte elettorali che il partito ha subito (2018 e 2022) sono frutto di errori di linea politica. Serviva, in entrambi i casi, e ora più che mai, un confronto serio, anche duro, su questi errori; un confronto tra prospettive diverse che leggono le cause di questi errori, e poi si contendono il partito in un percorso congressuale trasparente, senza falsi unanimismi. E in effetti le linee politiche più importanti che si stanno confrontando per il congresso in corso lo stanno facendo.
La discussione sulla “rifondazione del PD” era invece fuori luogo: ridiscutere le ragioni fondative vuol dire definire un’area condivisa (all’unanimità, più o meno) di valori, che costituisce il partito. Rimettere in discussione questo significa rimettere in discussione l’intero progetto del PD, denunciarne il fallimento ma, soprattutto, restringerne il perimetro: le “nuove basi” del PD, nel contesto attuale, rischiano di servire ad additare gli errori politici che hanno portato alla sconfitta, e ad escludere qualcuno. Restringendo così l’area di riferimento del partito, condannandolo a diventare una forza minore rispetto a quello che era.
Ma non importa. Il percorso adottato è stato questo, e il Manifesto è stato approvato (tanto più che non comporta, sembra, la negazione di quello del 2007). Dando per scontati i punti di forza (prese di posizione nette su Europa e contesto internazionale, diseguaglianza, diritti sociali e civili, ambiente e sostenibilità, istituzioni), vediamo quali sono i limiti.
1- In primo luogo, manca una posizione coraggiosa sulla riforma delle Istituzioni europee. Queste soffrono da tempo di un deficit di democrazia a causa dell’integrazione squilibrata tra organismi che rappresentano i governi e organismi comunitari. Su questo punto è necessario rafforzare in qualche modo il peso del “popolo europeo” al momento delle elezioni, con meccanismi che rendano questo voto più rilevante, vincolando maggiormente la nomina del Presidente della Commissione europea al voto espresso (per esempio con l’elezione diretta del Presidente stesso, o qualcosa del genere). Al di là della soluzione concreta proposta, la via da seguire per un centrosinistra progressista europeo è quella di rafforzare la democraticità delle istituzioni rappresentative, anche rimettendo mano al progetto di una Costituzione europea.
2- Sul piano delle istituzioni repubblicane, la giusta difesa degli attuali equilibri costituzionali sembra chiudere le porte a progetti di riforma che rafforzino il rapporto tra elettori e governo, in termini di rappresentatività. Escludere il presidenzialismo (che però non va demonizzato) può andare bene come prospettiva politica generale, ma la difesa della democrazia parlamentare non esclude la necessità di dare il giusto peso e la giusta stabilità all’azione di governo, con meccanismi trasparenti (fiducia costruttiva, fiducia di una sola camera, premierato forte ecc.), evitando così il ricorso a meccanismi distorti per affermare l’azione di governo, come capita ora (abuso dei decreti-legge ecc.). E sarebbe utile anche avere una prospettiva chiara sui modelli di legge elettorale che si auspicano, per evitare improvvisazioni spericolate.
3- Manca un’idea di politica economica e di crescita. È vero che la crisi ambientale non va più dissociata dallo sviluppo, come afferma giustamente il Manifesto; tuttavia, occorre avere un’idea generale di sviluppo economico del Paese, che tenga conto dei suoi problemi strutturali. Non c’è invece una analisi approfondita della politica economica, se non un richiamo generico al ruolo delle imprese. Tuttavia, il dato di fatto da cui partiamo è che l’Italia, come sistema Paese, è bloccata da circa vent’anni: si tratta di individuare quali sono le strettoie che impediscono lo sviluppo, che tengono bassa la produttività, che perpetuano i gravi divari territoriali, che limitano l’occupazione in generale ma soprattutto quella femminile ecc. Di tutto questo non c’è traccia. E se ne risente anche sul lato delle politiche del lavoro: questo, come è giusto, ha un posto importante nel Manifesto (ma attenzione: parlare di lavoro e non di politica economica e crescita sembra una mossa un po’ nostalgica…), ma senza un approfondimento chiaro. Quali modelli per un mercato del lavoro nel contesto di una globalizzazione in continua crescita? Ricordiamo che, sia per la politica economica che per la politica del lavoro, la sfida è il confronto tra economie emergenti, che trasformano radicalmente, anche in positivo, le condizioni di masse di persone prima escluse, e economie “ricche” (tra cui noi) che vedono modificati i loro equilibri interni da questo nuovo contesto. Non basta il richiamo al salario minimo (sacrosanto). La sfida è molto più complessa.
4- Manca del tutto la parola pluralismo, in questo Manifesto. E mancano le parole religione e laicità. Eppure, da diversi decenni il dibattito politico e teorico delle democrazie liberali ha avuto al centro questi temi. E continua ad averli. Le ragioni di questa centralità sono fondamentali, non teoriche ma legate alla vita concreta degli individui: il problema del velo, per esempio, la questione dell’istruzione delle bambine o delle ragazze, il ruolo delle scuole religiose, il rapporto con l’Islam ecc. Dato il contesto di crescita dell’immigrazione e del multiculturalismo, le nostre democrazie devono rispondere a queste sfide. E su questi temi la linea di demarcazione destra-sinistra è piuttosto marcata: le destre “identitarie” (prevalenti in questo momento), ma anche quelle più moderate, tendono a recuperare un’idea di forte unità comunitaria della nazione, e a restringere o riconoscere di meno gli spazi del pluralismo. Una difesa del pluralismo orientata non solo dall’idea della libertà individuale ma da quella di eguaglianza, di eguale rispetto delle persone pur nella diversità delle loro forme di vita, è invece un patrimonio delle forze progressiste. Inoltre, il dibattito sul pluralismo ha avuto al centro il ruolo pubblico della religione, e quindi una definizione inclusiva del concetto di laicità. Tutto questo si è perso nel nuovo Manifesto (ed era invece molto presente nel Manifesto del 2007). Ma non possiamo permettercelo.
È dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo Masaccio di Firenze. Si occupa di filosofia politica e politica scolastica. Ha scritto saggi su Rawls, Habermas e i fondamenti della democrazia liberale. Ha pubblicato diversi interventi sulla scuola su il Mulino, Le parole e le cose, Internazionale, Rivista dell’Istruzione, Scuola7, La scuola e l’uomo. È tra i fondatori del gruppo “Condorcet. Ripensare la scuola”.
Siamo passati da Reiclin e Scoppola a Orlando e Franceschini…….poveri noi