di Pietro Ichino
L’accordo fra Governo e Sindacati sul nuovo assetto del settore pubblico è una buona notizia solo se vuol dire che i contratti collettivi destinati a realizzarlo collegheranno strettamente gli aumenti retributivi al conseguimento da parte delle amministrazioni di obiettivi precisi e collegati a scadenze determinate.
Confesso che questo ministro Brunetta in stile Draghi, con microfono disattivato, istintivamente mi piace di più di quello del 2008-2011, che puntava tutto sulla comunicazione permanente tuonando contro i fannulloni ma cavando pochi ragni dal buco. La speranza, dunque, è che l’accordo sul nuovo corso del settore pubblico con le tre confederazioni sindacali maggiori, annunciato solennemente mercoledì insieme ai tre rispettivi segretari generali, sia solo la punta visibile di un grande iceberg di lavoro tanto silenzioso quanto efficace volto a cambiare incisivamente la struttura e il modo di funzionare del mastodonte.
Perché invece, se dovessimo stare soltanto alla parte emersa di quell’iceberg, l’impressione non sarebbe molto positiva. Non convince affatto l’idea – apparentemente sottesa all’immagine di quel tavolo ministeriale lungo il quale sedevano allineati Brunetta, Landini, Sbarra e Bombardieri, con Draghi in mezzo a mo’ di garante della ritrovata armonia – secondo cui le cose che vanno fatte per far funzionare meglio le amministrazioni pubbliche si possono fare soltanto con l’accordo dei sindacati: di quegli stessi sindacati che rifiutano nei fatti la valutazione della performance delle amministrazioni e dei loro addetti, amano il management deresponsabilizzato che abdica alle proprie prerogative, rivendicano aumenti uguali per tutti. Gli stessi che nei giorni scorsi non hanno speso una parola per difendere la dottoressa Raffaella D’Atri, direttrice dell’Ufficio del Lavoro di Rimini, aggredita da 10 dipendenti per aver loro assegnato, in sede di valutazione annuale, un punteggio tra i 95 e i 98 punti invece dei 100 su 100 che nel settore pubblico normalmente non si negano a nessuno.
In realtà, i cambiamenti essenziali di cui il pachiderma ha bisogno possono essere operati senza bisogno né di nuove leggi, né di nuovi accordi sindacali; anzi, richiedono la capacità e volontà del governo di fare il proprio dovere senza lasciarsi impressionare dalle possibili levate di scudi da parte dei sindacati. Quei cambiamenti si possono riassumere così: responsabilizzazione rigorosa del vertice di ciascuna amministrazione per un risultato preciso, specifico, misurabile, collegato a una scadenza determinata; con l’avviso che lo stesso obiettivo deve essere ripartito a cascata su tutti i livelli sottostanti e che nel caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo il vertice stesso verrà rimosso. Per esempio, in materia di vaccinazioni: tot entro marzo, tot entro aprile, e così via. In materia di pagamenti ai fornitori: riduzione del ritardo medio a tot giorni entro maggio, tot entro luglio, e così via. Politiche attive del lavoro: attivazione effettiva di tot assegni di ricollocazione entro giugno, tot entro settembre, e così via. In materia di giustizia: riduzione del tempo medio dei giudizi civili a tot giorni entro il 2021, tot entro il giugno 2022, e così via (è possibile subito: basta costringere i giudici a concordare con gli avvocati all’inizio di ogni causa il calendario del processo, come già prevede il codice, e dare loro l’attrezzatura informatica necessaria per farlo).
Se il governo fosse davvero determinato a far valere questa responsabilizzazione dei vertici per i risultati, i vertici stessi sarebbero costretti ad esercitare le proprie prerogative manageriali nei confronti dei dirigenti sottostanti, e questi nei confronti dei rispettivi dipendenti; sarebbero costretti – perché ne andrebbe del loro posto – e al tempo stesso legittimati a fare quello che ha fatto la dottoressa D’Atri a Rimini, cioè a incentivare per davvero i propri dipendenti e quindi a valutarne le performance. E probabilmente anche i sindacati se ne farebbero una ragione.
Un altro messaggio poco convincente implicito nell’annuncio di mercoledì è quello che riguarda la necessità, in questo momento, di riconoscere ai dipendenti pubblici, con il rinnovo dei loro contratti collettivi, un aumento delle retribuzioni secco e indifferenziato, di oltre 100 euro mensili. Non si parli di recupero dell’inflazione, perché questa è da anni insignificante; si guardi, invece, alla questione sociale oggi più dirompente: la contrapposizione tra i garantiti e i non garantiti.
Quella contrapposizione c’era anche prima; ma la pandemia la ha molto inasprita. I garantiti – e tra questi soprattutto i dipendenti pubblici, dei quali medici e infermieri sono solo una piccola parte – sono stati per la maggior parte appena lambiti dallo tsunami, al quale hanno potuto e possono guardare con la stessa partecipazione emotiva con cui al cinema si guarda un film drammatico; i non garantiti sono in balia della tempesta, solo in piccola parte indennizzati dallo Stato, esposti al rischio che il drastico peggioramento della loro condizione diventi permanente.
Di fronte a questa vera e propria catastrofe, un governo che ha a cuore l’equità e la coesione sociale non solo deve destinare tutte le risorse disponibili al riequilibrio tra i primi e i secondi, ma deve anche smettere di considerare come intangibili le prerogative dei primi: la loro inamovibilità, il loro non assoggettamento a valutazione, le loro rendite, i loro “diritti acquisiti”. Al primo posto nella sua agenda dovrebbe stare, al contrario, l’aumento della contendibilità delle funzioni pubbliche a tutti i livelli, un loro stringente assoggettamento a valutazione, un atteggiamento tendenzialmente critico nei confronti di tutti i “diritti” che pretendono di essere “acquisiti”, cioè intoccabili. Nei rinnovi dei contratti collettivi dei vari settori dell’impiego pubblico questo dovrebbe tradursi in aumenti retributivi solo in forma di premi per il raggiungimento degli obiettivi precisi, misurabili e collegati a scadenze determinate, di cui si è detto sopra. Ma di questo, mercoledì, non si è sentita una sola parola.
Ministro Brunetta: se è questo che sta maturando in realtà nella parte sommersa dell’iceberg, tanto di cappello. Altrimenti, forse è ancora in tempo per cambiare strada.
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino